Il sindaco di Benevento: «Mi fece deputato a 28 anni, il nostro fu un grande innamoramento. Finì con la fine della Dc. Lui scelse i popolari. Lo avvertii che quegli amici avevano idee un po’ moralistiche, insomma che non l'avrebbero candidato. E infatti non lo candidarono»
È lungo l’elenco dei nomi della classe dirigente che Ciriaco De Mità formò, nei decenni. La parte più consistente è certamente quella regionale, a cui il leader della Dc scomparso stamattina all’età di 94 anni - che fu segretario per sette anni, dal 1983 al 1989, il più longevo segretario, più di De Gasperi e di Fanfani, e sindaco della sua Nusco dal 2014 fino a oggi - si dedicò per tutta una vita. Sono nomi meno conosciuti di quelli nazionali, che a loro volta sono moltissimi.
Uno dei più noti è Clemente Mastella. Che ricorda come iniziò quel sodalizione che durò fino alla fine della Dc: «Avevo 28 anni quando divenni deputato, nel '76, grazie a lui. Gli avevo scritto una lettera, animavo un gruppo di amici legati al Concilio, eravamo cattolici democratici. Ma non eravamo iscritti alla Dc, che per noi era troppo conservatrice. Lui venne a trovarci e dialogammo. Poi ci fu una forma di innamoramento fra lui e me. Divenni vicesegretario della Dc regionale. Riconobbe in me un po’ di talento. Molti non lo ricordano ma grazie a lui Romano Prodi divenne presidente dell’Iri, e qualche anno dopo Giovanni Goria divenne presidente del Consiglio. Devono a lui Pier Luigi Castagnetti, Bruno Tabacci. E Sergio Mattarella, che da lui fu spinto ad impegnarsi in politica e che nel 1984 lo mandò a fare il commissario della Dc in Sicilia»
E Nicola Mancino, e Gerardo Bianco.
Sì ma loro sono la classe dirigenti di qui, nostra. La verità è che abbiamo esportato un modello di comportamento politico da qui, dalla Campania, all'Italia. Una classe politica che partiva dalla provincia, la sana provincia italiana, e arrivava al potere, con sacrifici che riguardavano la storia personale di ognuno di noi. Fummo contrastati dai poteri forti.
I poteri forti contro di voi che eravate potentissimi?
Lo fummo. Perché il fatto che arrivavamo dalla provincia non piaceva. Figuriamoci: a me hanno contestato il fatto di essere sindaco di Benevento perché vengo da Ceppaloni. E così se venivi dall'Irpinia o dal Sannio, guai ad arrivare ai vertici del potere. A De Mita veniva contestato persino il modo di parlare.
Non è che fosse chiarissimo. Era una scelta?
Nessuno può dire che avesse problemi di grammatica, era un uomo coltissimo. Gli veniva contestata la pronuncia. Ma chi voleva capire, capiva. Poi certo, lui faceva ragionamenti politici e c'è chi la politica non la capisce. Per lui la politica era con la maiuscola, era la filosofia della politica. De Mita era un leader, un maestro, un riferimento. Altrimenti non sarebbe arrivato a prendere 200mila voti. E noi demitiani eravamo l'elemento trasmissivo dei suoi orizzonti politici. La sua fu una scuola. Avevamo l'orgoglio della nostra intellettualità. Aveva studiato Sturzo e De Gasperi, ma anche Gramsci. Fu un grande innovatore, ebbe grandi intuizioni.
Il doppio incarico, per esempio: fu segretario e presidente del consiglio, l'unico precedente di Matteo Renzi.
Fu una scelta contestata. E gli imposero di scegliere. Ma oggi tutti i leader europei hanno il doppio incarico.
La sinistra di base della Dc, di cui lui era leader, vide prima degli altri anche la nascita del potere di Silvio Berlusconi.
Con Berlusconi ebbe sempre un rapporto controverso. Io invece avevo un atteggiamento più tranquillizzante. Cercavo di spiegargli che come la Fiat trattava con i repubblicani e i socialisti, noi avremmo dovuto trattare con Berlusconi, ma senza sottomissioni.
Direi peggio che controverso: nel ‘90 i ministri della sinistra Dc si dimisero contro l'approvazione della legge Mammì.
Sì, io non lo convinsi e con Berlusconi non si intesero mai. Poi anche noi ci dividemmo, quando la Dc finì. Io feci il Ccd con Pier Ferdinando Casini e invece lui si scelse con il partito popolare. Lo avvertii che quegli amici avevano un'idea un po’ moralistica, insomma che non l'avrebbero candidato. E infatti non lo candidarono. Fu un’amarezza per lui. Ci sentimmo ancora per molto tempo, anche quando fui ministro di Berlusconi. Poi ci perdemmo. Ma quando nel 2016 mi candidai a sindaco di Benevento venne a trovarmi.
De Mita lascia tanti allievi tuttora attivi in politica?
Lascia soprattutto una cosa che oggi va un po’ di moda ma all'epoca non piaceva affatto, ed è una delle sue tante intuizioni: l'attenzione alla realtà territoriale, per la quale ha avuto contrasti, penso a tutta la contestazione sul terremoto. Al fondo l’accusa che gli è sempre stata rivolta è quella di interessarsi ai problemi delle nostre realtà. Ed è un errore, perché la vocazione del parlamentare è proprio quella di rispondere ai bisogni di una comunità. Era la sua scelta, e l'ha portata fino in fondo, fino alla fine. Aveva una clientela, ma era una sana clientela.
Come è fatta una clientela "sana".
È fatta da chi non ha riparo nelle istituzioni e cercava il politico per avanzare nella società, magari attraverso un figlio che aveva studiato ma non trovava nessuna altra possibilità. De Mita aprì un varco anche per le zone interne, penso alla Fiat di Grottaminarda. Grazie a lui per la prima volta si parlò delle zone interne della Campania.
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