Dal 25 aprile fino alla strage di Bologna e a piazza Fontana, la destra utilizza la tecnica del rimosso selettivo. Così i terroristi non sono neofascisti, i partigiani spariscono e gli alleati in Sicilia sono «invasori»
Le radici profonde non gelano. Il verso di Tolkien era una delle strofe della canzone di Bilbo Baggins; è diventato il mantra della destra di Giorgia Meloni. Le cui radici sono ben piantate nella storia del Movimento sociale italiano e di quella fiamma che campeggia ancora al centro del simbolo di Fratelli d’Italia.
Radici così profonde da sporgere in ogni discorso pubblico della premier, del presidente del Senato Ignazio La Russa e di tanti dirigenti del partito che oggi, dai vertici istituzionali della repubblica, riscrivono la storia del Novecento.
A emergere, infatti, è l’eco culturale in cui Meloni si è formata, con tutto il suo armamentario di riti. Ma soprattutto impregnato di revisionismo storico rispetto ad alcuni episodi cruciali.
L’accusa latente della destra ex missina, infatti, è che la storia sia stata scritta dai vincitori dimenticando il sangue dei vinti, come titola anche il saggio di Giampaolo Pansa, e che ci sia un versante non raccontato dalla storiografia ufficiale ma tramandato nella memoria. Facile citazione, utilizzata anche dal ministro Nello Musumeci nel suo nuovo libro La Sicilia bombardata, in cui lo sbarco degli alleati inglesi e americani («nemici» e «invasori») per liberare l’isola nel 1943 viene raccontato come una «feroce aggressione».
Il crinale è sottile e FdI sa di essere osservata speciale. Per questo Meloni ha adottato la tecnica della puntuale omissione, con una accurata scelta di aggettivi. Nulla nelle sue parole è mai falso, ma spesso è parziale. La storia non può essere riscritta completamente, viene però punteggiata di volontari omissis e di precise aggiunte.
Le omissioni
È stato così il 25 aprile, la festa della liberazione dal nazifascismo e data simbolo della Resistenza e della lotta partigiana. Una parola che però la premier non ha pronunciato, perché per lei il 25 aprile è stato «la fine della seconda guerra mondiale» ma anche «l’inizio di una guerra civile» che «divise famiglie e portò ad esecuzioni sommarie».
Tanto da recuperare l’auspicio di Silvio Berlusconi – il primo a mettere in discussione il valore della giornata – e di trasformare la festa della liberazione nella «festa della libertà».
Tutto il capitolo storico che riguarda la resistenza, soprattutto quella romana e quindi legata alla città culla di FdI, è un campo minato di travisamenti. Ha cominciato La Russa, definendo l’attacco partigiano di via Rasella «una pagina tutt’altro che nobile», perché i nazisti uccisi erano «una banda musicale di semi pensionati e non nazisti delle SS», accusando inoltre i partigiani di aver causato la rappresaglia che provocò l’eccidio delle fosse Ardeatine, in cui vennero trucidate 335 persone.
Lui ha dovuto poi correggersi, scusarsi e ritrattare. Meloni, invece, è stata più sottile, ancora una volta per omissione. Così nel comunicato di palazzo Chigi per commemorare le fosse Ardeatine, infatti i 335 morti vennero «massacrati solo perché italiani». Che fossero italiani non ci sono dubbi, ma la premier «dimentica di aggiungere che vennero scelti tra gli antifascisti», ha precisato l’Anpi.
L’ultimo caso di omissis, che in questo caso è anche verità processuale, ha riguardato la strage di Bologna. Sentenze e ricostruzioni storiche hanno fissato la matrice neofascista della bomba che nel 1980 fece esplodere la stazione e uccise 85 persone, ma Meloni si è limitata a definirla una strage con matrice «terroristica». Nessun connotato, nessun colore ideologico. È servita la voce dell’ex Terza Posizione Marcello De Angelis, dirigente in regione Lazio, a far emergere la storica posizione della destra e la tesi del l’innocenza degli ex Nar, Francesca Mambro e Valerio Fioravanti.
Analoga omissione, tuttavia, Meloni l’ha riservata a quella che viene considerata la madre di tutte le stragi che aprì la stagione del piombo. In occasione del cinquantesimo anniversario della strage di piazza Fontana l’allora deputata di FdI ricordò «le vittime innocenti» ed esortò «a non smettere di cercare verità e giustizia». Nessun accenno alla comprovata matrice neonazista e al ruolo di Ordine Nuovo, fondata da Pino Rauti, a cui è intitolata una sezione giovanile di FdI di Brescia, la città della strage neofascista di piazza della Loggia.
Nella prima commemorazione con Meloni a palazzo Chigi, l’amnesia è stata totale: nessun comunicato per ricordare la strage. Il 14 aprile 2022, però, in Senato FdI ha organizzato un convegno dedicato all’ex capo dei servizi segreti Gianadelio Maletti, condannato per favoreggiamento a Ordine Nuovo, coinvolto nell’inchiesta su piazza Fontana e morto latitante in Sudafrica. In quell’occasione quello che oggi è il presidente della commissione Cultura alla Camera, Federico Mollicone, lo ha definito «un uomo dello stato che ha sempre osservato l’appartenenza alla divisa».
Il vittimismo
In merito alle stragi, la retorica della destra si è sempre più impregnata di vittimismo. Sia con la strage di piazza Fontana a Milano che con quella di piazza della Loggia a Brescia, infatti, la linea interna all’Msi – dalle pagine del suo periodico “Candido” – e della destra extraparlamentare si sono caratterizzate per la denuncia di quello che veniva definito «il golpe bianco», realizzato dagli apparati dello Stato per implicare i militanti di estrema destra nelle stragi così da animare una sorta di caccia al fascista.
Echi evidenti di questa posizione si ritrovano ancora oggi e sono racchiusi nello slogan «Nessuno di noi era a Bologna», a evocare che la matrice della strage non è di destra. Contenuto in un brano della rock band neofascista Ultima Frontiera, l’ultima a usarlo pubblicamente è stata la deputata di FdI, Paola Frassinetti, organizzatrice nel 2020 di un convegno per «spazzare via 40 anni di vergogna».
La congiura del silenzio
Accanto alle omissioni, FdI ha portato a palazzo Chigi anche i miti storici della destra. A fronte del lungo elenco di commemorazioni mancate, la premier ha invece inviato un messaggio per ricordare il cinquantesimo anniversario del rogo di Primavalle a Roma, in cui persero la vita per mano di esponenti della sinistra extraparlamentare i fratelli Stefano e Virgilio Mattei, figli del segretario dell’Msi del quartiere.
Strage tra le più efferate e ancora senza una verità giudiziaria a portare sollievo alla famiglia, si tratta di una delle pagine più buie degli anni di piombo, la cui commemorazione è radicata nella tradizione della destra romana. Quello a cui Meloni ha dedicato più attenzione, però, è stato il ricordo del massacro delle foibe compiuti ai danni degli esuli italiani dall’esercito popolare jugoslavo.
Data commemorata dalla galassia postfascista come uno dei crimini del comunismo, il 10 febbraio palazzo Chigi è stato illuminato con il tricolore e al centro della facciata proiettata la frase “Io Ricordo”. In questa occasione la premier ha pronunciato la frase che riassume il punto di vista storico della destra , parlando di «congiura del silenzio» durata per «troppi anni». Il riferimento è alle foibe, ma questa argomentazione è la chiave per interpretare quello che Luca Telese – autore di Cuori neri, il libro che racconta gli omicidi dei giovani militanti di destra durante gli anni di piombo – definisce «il legame tra culto memoriale e l’identità della destra postmissina».
E gli interpreti di oggi di questo culto – ai vertici delle istituzioni - si muovono alla ricerca del contrappasso, attraverso una opposta e speculare congiura del silenzio.
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