- Vigilia di Papeete in salsa grillina. L’attacco durissimo a Conte ha l’effetto di stopparlo, almeno secondo il ministro che accusa apertamente il presidente di «una radicalizzazione in corso che anche rispetto alla politica estera».
- C’è l’ipotesi di una mozione autonoma sull’Ucraina. Ora il presidente deve smentirla. Intanto usa il sarcasmo contro l’ex capo del movimento.
- Che, dicono i suoi, da oggi non starà più zitto: «Le sue posizioni saranno rese pubbliche, sarà una costante». Non è che l’inizio
Se non era la vigilia di un Papeete in salsa grillina, ci mancava poco. Forse mancava solo il mojito. L’attacco durissimo di Luigi Di Maio a Giuseppe Conte nella tarda mattinata di ieri ha l’effetto di stopparlo, almeno secondo il ministro che accusa apertamente il presidente di «una radicalizzazione in corso che anche rispetto alla politica estera e alle alleanze storiche vede un’ambiguità su cui non concordo». Se ora Conte vorrà smentirlo dovrà fare molti passi indietro rispetto alle sue stesse promesse.
Il ministro degli Esteri abbozzava da mesi, fin dalle accuse che Conte gli aveva mosso nei giorni dell’elezione di Sergio Mattarella. Di Maio aveva chiesto l’apertura di una riflessione «in chiaro» nel movimento. E invece Conte ha attribuito a quella vicenda persino gli insuccessi delle amministrative. Il ministro è stato in silenzio, poi, al ritorno da una missione in Africa, ha parlato con molti colleghi. E ha aperto le dighe. Da oggi dirà «tutto in piena trasparenza», avvertono i suoi. Ieri ha iniziato: «Non credo che possiamo stare nel governo e poi, per imitare Salvini, un giorno sì e uno no attaccarlo», dice Di Maio, l’ambiguità della linea politica ha «disorientato» l’elettorato. Il ministro ha criticato anche l’assenza di «democrazia interna».
Ma la scelta del momento, grave, proprio mentre Mario Draghi è in missione a Kiev, è maturata nelle ultime dodici ore. Lo si capisce da una frase: «Non credo che sia opportuno assumere decisioni che di fatto disallineano l’Italia dall’alleanza Nato e dell’alleanza europea». Di Maio ha l’urgenza di stoppare l’ipotesi di una mozione autonoma sulle comunicazioni di Draghi il prossimo 21 e 22 giugno che i senatori grillini hanno discusso mercoledì pomeriggio a palazzo Madama. Una decisione che in sé metterebbe a rischio la maggioranza. Molti “contiani” sono convinti che il governo resterà in piedi, ma che ormai al movimento non resta che andare all’opposizione per ritrovare un po’ di consenso. Si proiettano in testa un film già visto: quello dell’ottobre 2013, Silvio Berlusconi ordina ai suoi di uscire dal governo e invece Angelino Alfano e la sua pattuglia restano.
Un altro Movimento
Di Maio, orma di fatto leader in pectore di un altro movimento possibile – ma, viene giurato, «non c’è nulla di organizzato, è un dissenso vero, anche se minoritario» – deve stoppare anche l’ipotesi «non opportuna» di «mettere nella risoluzione che impegna il premier ad andare in Consiglio Ue delle frasi o dei contenuti che ci disallineano di fatto dalle nostre alleanze storiche».
In quei minuti Draghi è in conferenza stampa a Kiev. «Vogliamo che si fermino le atrocità e vogliamo la pace», ma «l’Ucraina deve difendersi». Dice, in sostanza, che alla richiesta di altre armi da parte di Kiev l’Europa non risponde no.
A Draghi risulta che la scelta della mozione autonoma non è ancora presa. Forse Di Maio ha informazioni meno rassicuranti. Le conseguenze sarebbero a cascata: una conta nel M5s, uno scossone per il governo, un possibile domino rovinoso sul Pnrr e sul finale di legislatura.
La scissione viene negata, naturalmente: «Qui c’è una richiesta di posizioni chiare su politica estera e democratizzazione interna del Movimento 5 stelle», secondo il senatore Primo Di Nicola, «nessuno ha voglia di andare via, ma è necessaria una svolta». A favore di Di Maio si esprime tutto il partito “governativo” da Laura Castelli a Manlio Di Stefano a Sergio Battelli.
Un futuro difficile
Conte replica duramente, dà al ministro del principiante: «Quando ho iniziato a fare politica estera la prima cosa che mi è stata insegnata è che quando l’Italia è all’estero, nella persona del premier, tra l’altro in un viaggio delicatissimo, non si fanno polemiche interne perché rischiano di compromettere l’azione del primo ministro. Quindi non parlerò di politica estera finché non terminerà la missione di Draghi».
Usa il sarcasmo sulle “lezioni di democrazia interna” e finisce con una dose di veleno: Di Maio vuole fondare nuovo partito? «Ce lo dirà lui in queste ore». Attribuisce il dissenso alla «fibrillazione» di chi aspetta una decisione sul secondo mandato. Derubricato a opportunismo, come nelle peggiori tradizioni politiche. Sembra un altro film già visto, quello di Berlusconi che accusa Fini e Fini che lo sfida: «Che fai, mi cacci?». E invece no, Di Maio ha imparato tante cose in questi anni, e anche questo: «Da oggi le sue posizioni saranno pubbliche, sarà una costante». Non è che l’inizio.
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