- L’ex ministro, non rieletto, rischia di doversi confrontare con due querele per diffamazione, una presentata dall’Alpaa, l’altra da una giornalista che Di Maio aveva segnalato all’ordine per i suoi articoli su Virginia Raggi.
- La prima vicenda in ordine di tempo comincia nel 2017: risale a quell’anno una lista nera che l’allora vicepresidente della Camera aveva inviato all’ordine dei giornalisti.
- La seconda prende spunto da un’intervista concessa nel 2019 dall’allora capo politico del Movimento a Non è l’Arena.
Non rieletto e pure a rischio processo. Le ultime settimane non sono state le più brillanti nella vita di Luigi Di Maio, ministro degli Esteri uscente del governo Draghi. Dopo la scissione dal Movimento 5 stelle e la sfortunata parabola di Insieme per il futuro e Impegno civico, ora Di Maio rischia di dover far fronte a due querele per diffamazione.
Il ministro uscente, che non è stato rieletto dopo aver perso sia in un collegio uninominale che in termini proporzionali, con il suo Impegno civico che non ha raggiunto nemmeno l’uninominale e ha riportato alla Camera soltanto Bruno Tabacci, era stato coinvolto nel 2017 e nel 2019 in due vicende che ora rischiano di avere conseguenze importanti.
Contattato da Domani per una dichiarazione a proposito dei documentati pubblicati dalla Camera, l’ormai ex ministro ha preferito non rilasciare dichiarazioni.
Le questioni
La prima vicenda in ordine di tempo comincia nel 2017: risale a quell’anno la lista nera che l’allora vicepresidente della Camera aveva inviato all’ordine dei giornalisti per raccogliere i cronisti che a suo modo di vedere avevano diffuso «menzogne e notizie letteralmente inventate» sulla polizza vita intestata all’ex sindaca di Roma Virginia Raggi da Salvatore Romeo. Una delle giornaliste nella lista, Elena Polidori, lo aveva querelato per diffamazione. Inizialmente il gip aveva raccomandato l’archiviazione, ma Polidori era riuscita a ottenere l’annullamento del decreto di archiviazione: la decisione di inoltrare gli atti arriva ad aprile 2018. Nel documento la giudice dichiara sospeso il procedimento fino a deliberazione e comunque non oltre il termine di novanta giorni dalla ricezioni dell’atto.
La seconda prende spunto da un’intervista concessa nel 2019 dall’allora capo politico del Movimento a Non è l’Arena. In quell’occasione Di Maio aveva attaccato un Caf responsabile, secondo quanto emergeva da un servizio della trasmissione, di indicare ai percettori del reddito di cittadinanza come aggirare le regole dello stato. Nel Caf operava anche l’Associazione lavoratori produttori agroalimentari ambientali, a cui il ministro avrebbe attribuito la responsabilità dell’accaduto. Secondo l’associazione l’accusa è sbagliata e il ministro ha confuso i piani.
«Alpaa non svolge alcuna consulenza fiscale e men che meno ha competenza sulla richiesta del reddito di cittadinanza. Pertanto nessun “dipendente” dell’Alpaa a Palermo o in qualunque altra sede, ha mai potuto fornire e mai fornirà consulenze in materia». Il presidente dell’associazione all’indomani delle accuse di Di Maio aveva presentato una querela per diffamazione.
Le posizioni di Di Maio
Ora, i documenti sono stati stampati dalla Camera e il parlamento deve verificare se per il procedimento è applicabile l’immunità parlamentare. Su questo deciderà la giunta per l’Immunità quando sarà formata, ma è significativo che Di Maio si stia trovando in questa situazione: uno dei punti saldi del Movimento di cui a lungo ha fatto parte era proprio la rinuncia da parte dei politici all’immunità. «L’immunità parlamentare va abolita. È un privilegio» scriveva Di Maio su Twitter nel 2014, ma il tema è stato un cavallo di battaglia in tutta la XVII legislatura. «Il M5s non la userà mai» rilanciava nel 2016.
In effetti, durante il governo Conte I, quando insieme ad altri ministri era stato coinvolto nelle indagini della procura sul caso Diciotti, Di Maio, Giuseppe Conte e Danilo Toninelli si erano autodenunciati. In quell’occasione, però, la sua posizione era stata archiviata. Era andata diversamente per Matteo Salvini, per cui il Senato, alla fine, aveva negato l’autorizzazione a procedere.
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