- Il Partito democratico è afflitto da una cronica incapacità di discutere al suo interno quanto è avvenuto nei 15 anni trascorsi dalla sua fondazione.
- Ma il fatto che l’Italia sia indietro sulla diagnosi della crisi, non significa che nel resto d’Europa siano più avanti sulla cura. Dalla Scandinavia alla penisola iberica la sinistra resta in crisi di idee e di voti.
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Questo articolo si trova sull’ultimo numero di POLITICA – il mensile a cura di Marco Damilano. Per leggerlo abbonati o compra una copia in edicola.
Per una di quelle curiose coincidenze che piacciono tanto agli storici, il manifesto dei valori del Partito democratico e il Programma di Amburgo del Partito socialdemocratico tedesco (Spd), sono stati scritti nello stesso anno: quel fatale 2007, l’ultimo momento in cui ci si poteva aggrappare ancora alla mitica speranza della fine della storia, prima che la grande crisi finanziaria risvegliasse anche i più tenaci sognatori.
A parte questo, non potrebbero essere documenti più diversi. Uno è l’ultima versione del programma ufficiale del più antico partito socialdemocratico europeo. L’altro il manifesto fondativo di un nuovo partito che all’epoca non era del tutto certo né del suo passato, né del suo futuro.
Il primo è un documento collocato nel solco della tradizione socialdemocratica, che fin dalla prima riga mettere in guardia su un futuro pieno di minacce e su un capitalismo da tenere in riga. Il secondo, è un concentrato di ottimismo anni Novanta, un invito a non farsi spaventare dalla modernità e ad abbracciare la globalizzazione, pur con qualche moderata cautela. Pochi mesi dopo l’approvazione di questi documenti, il crack di Lehman Brothers e la crisi che economica avrebbero rivelato quale dei due documenti era più in linea con i tempi.
Possiamo cercare di sprovincializzarci quanto vogliamo, ma da qualunue punto si guardi la questione sembra difficile negare che il dibattito interno al Pd, che ha avuto un guizzo di vitalità proprio con la discussione sulla riforma del manifesto negli ultimi mesi, sia indietro di una generazione politica.
Il dramma, però, è che per quanto nell’accademia e fuori dall’Italia il dibattito su cosa è avvenuto in questi lunghi anni di crisi della sinistra sia articolato, quello sulle soluzioni resta povero. Soprattutto di risultati.
La diagnosi
Cosa è accaduto nei 15 anni trascorsi tra la fondazione del Pd, quando apparentemente rivitalizzati dalla Terza via i socialdemocratici erano tornati a dominare l’Europa, e l’attuale triste stato della sinistra del vecchio continente? Una delle migliori definizioni è stata pubblicata in un breve e tagliente editoriale del Financial Times, pubblicato nell’aprile del 2020.
La definizione è in negativo: il quotidiano della City di Londra, di certo non la pubblicazione più vicina agli ideali socialdemocratici, descrive cosa è mancato negli ultimi 40 anni e cosa bisogna ricominciare a fare. I governi devono tornare ad avere «un ruolo attivo nell’economia», devono considerare i servizi pubblici come qualcosa «in cui investire e non solo una fonte di problemi e trovare il modo di rendere il mercato del lavoro meno precario». La redistribuzione «deve tornare in agenda» e politiche un tempo considerate eccentriche «come il reddito universale e una tassa sulle ricchezze devono entrare nel mix».
Sono parole di cui si può trovare ben più di un eco nel dibattito sul cambiamento del manifesto del Pd, iniziato alla fine del 2022, in cui intellettuali e accademici, e alcuni dirigenti della sinistra (e del centro) del partito, hanno criticato la sbandata neoliberale del partito che ne aveva segnato la fondazione. La dura reazione che queste proposte di modifica hanno incontrato è un altro sintomo del ritardo italiano. Ma ritardo italiano sulla diagnosi non significa che al di là delle Alpi siano molti più avanti sulla cura.
Fuori dal nostro paese
Negli anni Duemila si diceva che si poteva guidare da Parigi a Vilnius attraversando soltanto paesi guidati da partito socialdemocratici. Colti dalla crisi mentre erano al governo, i socialdemocratici sono entrati in una lunga spirale discendente di crollo dei consensi e di incertezza ideologica. Rifare quella strada oggi, provando a tastare il polso del dibattito interno su quello che è accaduto in quegli anni, è un esercizio sconfortante.
I socialisti francesi e quelli greci sono stati travolti da una nuova sinistra radicale e sono quasi scomparsi (i greci del Pasok leggermente più in salute dei colleghi francesi). Nell’Europa dell’est, la sinistra non ha mai messo radici e dai paesi baltici alla Mittleuropa le elezioni continuano a svolgersi tra partiti centristi e conservatori.
A occidente del fiume Oder, la situazione è leggermente più rosea. Se il Programma di Amburgo del Spd tedesca appare più avanzato, o almeno meno ingenuo, del coevo manifesto del Pd, lo si deve probabilmente al fatto che all’epoca i tedeschi avevano già bagnato i loro panni nella Terza via del cancelliere Gerhard Schröder e avevano già iniziato un lento ritorno a sinistra.
Un’analisi delle proposte di policy del Spd negli ultimi 15 anni mostra un graduale e prudentissimo ritorno alle tradizioni socialdemocratiche, sempre nel quadro dei compromessi necessari a tenere in piedi grandi coalizioni con partiti dalle visioni molto eterogenee sulla società. Il risultato? Consensi che si mantengono intorno ai pessimi risultati degli anni seguiti alla crisi.
La Scandinavia, storico bastione della socialdemocrazia, non è la regione europea dove ci si aspetta la maggiore effervescenza. E infatti il partito socialdemocratico svedese, il più grande, blasonato e antico della regione, ha una storia recente che ricalca quella tedesca. Al “loro” Schröder, il leader socialdemocratico e primo ministro Göran Persson, sono seguiti grigi segretari che hanno lentamente riportato la barra verso un vaga identità socialdemocratico.
Nella vicina Danimarca, invece, ci si imbatte nel primo caso in cui la discussione su quanto accaduto alla sinistra in questo quindicennio ha prodotto qualcosa che forse si potrebbe definire “nuovo”. Mette Fredriksen, che ha preso la guida del partito nel 2015 e quella del paese nel 2019, è riconosciuta come la più urticante fustigatrice della svolta centrista degli anni Novanta, sempre pronta a rinfacciare gli errori ai suoi colleghi durante le riunioni europee.
Alla classica diagnosi della malattia della sinistra, Fredriksen aggiunge un tocco danese: una critica altrettanto feroce a quello che definisce un cedimento all’immigrazione. La sua soluzione potremmo definirla “rosso-bruna”: ritorno a un welfare “chauvinistico” e una durezza da destra radicale nei confronti dell’immigrazione. Nella pratica, però, il bruno si sta mangiando il rosso. Le politiche economiche di Fredriksen non sono meno caute di quelle degli svedesi e dei tedeschi e sono divenute ancora più pallide dopo che la prima ministra ha deciso di formare una coalizione con la destra moderata. I socialisti danesi stanno mantenendo i loro consensi meglio di tanti altri, ma se il modello Fredriksen sia esportabile, o se sia persino desiderabile esportarlo, rimane una questione aperta.
I mediterranei
Nella penisola iberica, i socialisti resistono e, in Portogallo, sotto la guida di Antonio Costa, sono persino cresciuti. Alle ultime elezioni hanno ottenuto da soli il 41 per cento dei voti, la percentuale più alta in Europa. Costa è un pragmatico affatto radicale, che aveva scaricato la parte sinistra della coalizione anche prima di conquistare una maggioranza autonoma alle ultime elezioni, ma oggi è forse uno dei pochi leader socialdemocratici da tenere d’occhio nel prossimo futuro.
L’Italia, con il suo congenito ritardo nel dibattito e la sua difesa di retroguardia di un visione ottimistica e fuori dal tempo del progresso e della globalizzazione, sembra l’eccezione in questo quadro. Ma la severità del giudizio va temperata.
Guardandola più da vicino la storia del Pd risulta molto più allineata a quella della sinistra europea di quanto potrebbe sembrare al primo sguardo. Alla segreteria centrista e post ideologica di Walter Veltroni ha fatto quasi immediatamente seguito quella di Pier Luigi Bersani, più tradizionalmente socialdemocratica sia nelle politiche che nell’organizzazione interna. Persino la segreteria di Renzi, nonostante i tanti ammiccamenti a Blair, ha avuto venature di populismo di sinistra, che mostrano come anche il nostro paese non era immune alle correnti che attraversavano la sinistra europea.
La vittoria di Elly Schlein sembra suggellare definitivamente questo percorso. Lungi dall’essere l’innovativa radicale che una minoranza del partito e dell’intellighenza cerca di dipingere per ragioni di tattica politica a breve termine, la nuova segretaria mostra che persino il Pd è salito sul treno della nuova socialdemocrazia post crisi. Il problema è che per il momento questo treno non sembra portare da nessuna parte. Chiedere alla neosegretaria di provare a mettersi alla guida del convoglio, magari trovando una formula innovativa in grado di conciliare i diritti individuali con quelli sociali, la radicalità identitaria con la tradizione socialdemocratica, è forse troppo. Ma è di certo quello di cui la sinistra europea avrebbe bisogno.
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