- Mattarella riceve il premier due volte per convincerlo a restare.
- Respinge le dimissioni e lo rimanda alle camere. Dove ha, sulla carta, una maggioranza.
- Draghi dunque andrà alle camere mercoledì prossimo, prima ha impegni in Algeria che rispetterà.
«Le votazioni di oggi in parlamento sono un fatto molto significativo dal punto di vista politico. La maggioranza di unità nazionale che ha sostenuto questo governo dalla sua creazione non c’è più». Mancano dieci minuti alle sette di sera, dopo una giornata lunghissima che inizia con i decibel dei Cinque stelle al senato e passa per un silenzio di tomba a palazzo Chigi, quando Mario Draghi legge la sua lettera di dimissioni ai ministri. Non ha scritto la parola «irrevocabili», forse non a caso, ma contiene una serie di passaggi – brevi, essenziali, taglienti – che non lasciano dubbi sulle intenzioni.
«È venuto meno il patto di fiducia alla base dell’azione di governo», scrive, non c’è più la «la chiara prospettiva di poter realizzare il programma di governo», né la condizione della «compattezza» fondamentale. Dopo Sergio Mattarella lo riceve per la seconda volta. Durante la prima, nel pomeriggio, la modalità è «informale», per convincerlo a restare. Il secondo incontro è formale: l’anziano presidente non accoglie le dimissioni e lo rinvia alle camere, «affinché si effettui, nella sede propria, una valutazione della situazione che si è determinata». Draghi se ne vuole andare subito, Mattarella gli oppone il fatto che non è stato sfiduciato. C’è una distanza ormai palpabile fra i due presidenti che dal 13 febbraio 2021 hanno camminato insieme, fino almeno alla rielezione dello stesso Mattarella al Colle. Ma questa versione in nottata viene smentita ufficialmente da una nota dell’ufficio stampa del Quirinale. Viene sottolineato che nel colloquio tra i due presidenti «si è registrata una totale identità di vedute».
Fra il primo e il secondo incontro, Mattarella ha provato a spiegare il suo punto di vista, quello della Costituzione del resto. Più tardi, in vari modi, ci hanno provato tutti, almeno tutti quelli che avevano uno straccio di possibilità di essere ascoltati. Non i Cinque stelle, che dopo il «non voto» del Senato hanno continuato a dare segnali contrastanti sulla disponibilità di votare una nuova fiducia allo stesso premier. Ma è difficile immaginare che, dopo gli attacchi scomposti al loro governo – l’ultimo, quello definitivo, al Senato lo muove la capogruppo Maria Domenica Castellone – M5s possa rimangiarsi tutto senza spaccarsi di nuovo.
Mercoledì decisivo
Draghi dunque andrà alle camere mercoledì prossimo – prima ha impegni in Algeria che rispetterà. In teoria non ci sarebbe un solo appiglio per chi spera di fargli cambiare idea. Dopo il «non voto» alla fiducia del dl aiuti, il premier è a un bivio. Ma è un bivio finto: se resta, e quindi accetta di provare ad andare avanti con la stessa maggioranza, se accetta insomma «il precedente dei Cinque stelle», ogni forza politica – leggasi Lega – sarà incoraggiata a fare un numero simile; e il governo è finito. La strada che tenta è l’altra: non accetta, per quanto riguarda lui il governo è finito.
Mattarella però deve cambiargli la prospettiva: una maggioranza c’è ancora, ed è ampia, almeno fino a prova contraria. Argomentazione istituzionale ineccepibile. Non per Draghi, che bada alla sostanza politica di quello che è successo nel pomeriggio. Ma Mattarella, fin qui infallibile regista di governi impossibili, ha guadagnato il tempo che serve a far capire a Draghi che non può rifiutarsi di tornare in parlamento. E ora le forze politiche dovranno scoprire le carte: chi vuole il voto dovrà dirlo al suo premier.
Il Pd punta sulla prosecuzione di «questo» governo: «Ora al lavoro perché mercoledì alle camere si ricrei la maggioranza e il governo Draghi possa ripartire», dice Enrico Letta. Spiega di «non temere» il voto, ma fino a mercoledì sarà impegnato a evitarlo, almeno finché c’è la possibilità che Draghi prosegua con la stessa maggioranza. Dario Franceschini rincara: «Mercoledì sarà la giornata decisiva, non oggi. In parlamento, alla luce del sole, tutte le forze politiche dovranno dire agli italiani cosa intendono fare». Fino ad allora la battaglia sarà a destra: Giorgia Meloni si appella al Colle perché sciolga le camere, Matteo Salvini si deve accodare. Da mercoledì inizia un’altra partita nelle forze politiche che fin qui hanno sostenuto Draghi.
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