- L’articolo di Walter Siti sulle ambizioni di egemonia culturale della destra coglie nel segno. Indebolisce la consistenza della presunta egemonia di sinistra e smonta l’ossessione di destra per il posizionamento simbolico.
- L’egemonia culturale negli ultimi decenni è diventata un mito, forse reale solo perché in molti ci hanno creduto.
- Sarebbe utile sapere quali valori la destra vorrà proporre con la sua egemonia, ma in cambio avremo solo vittimismo.
L’egemonia culturale della sinistra è uno di quei miti che hanno infestato il dibattito culturale negli ultimi decenni. Come ogni mito, ha iniziato a subire l’attacco dei demistificatori.
Tanto che qualcuno ha iniziato a segnalarne la scomparsa. Ma, come le credenze magiche, questo mito continua ad aleggiare come se fosse reale. E, in un certo senso, è reale poiché in molti vi credono, pur avendo la consistenza di uno spettro: benigno per alcuni, maligno per altri.
Il paradosso sta nel fatto che lo spettro benigno allieta le vite politiche della destra e ammorba quelle della sinistra. Infatti, mentre la destra ha prosperato nel denunciare una vera o presunta tirannia dell’egemonia culturale della sinistra, che l’avrebbe esclusa dai salotti che contano, negli ultimi decenni la sinistra si è trovata con un regalo simbolico che non sapeva bene come utilizzare.
Erede immeritata della strategia gramsciana, negli ultimi decenni la sinistra italiana ha presupposto di poter fare egemonia culturale senza elaborare nuovi contenuti.
L’egemonia culturale si è via via fusa con la questione morale in una sorta di autoconvincimento collettivo, di destra e di sinistra, che ha formato l’identità percepita della sinistra negli ultimi quarant’anni. Ma l’egemonia culturale e la questione morale sono diventati due significanti vuoti, ovvero due tic simbolici senza referenti.
Senza cadere nel solito autoflagellamento, che attribuisce alla sinistra ogni colpa e misfatto del mondo, l’egemonia ha via via perso le persone, le opere, le idee di cui avrebbe dovuto nutrirsi.
Con ciò non si dice che il fenomeno non sia mai esistito. Semmai è stato sopravvalutato.
Uno dei tanti meriti dell’articolo di Walter Siti è quello di aver iniziato a rimettere il mito al suo posto: feticcio a sinistra per mancanza di identità, ma ancor di più feticcio a destra, la cui consistenza culturale è per lo più consistita in una sottrazione vittimistica.
Definendosi come altro dalla sinistra (no immigrazione, no gender, ecc.) la destra ha beneficiato di un’opposizione a ideali plausibili, ma con scarso mordente, senza avere l’onere di definire positivamente in cosa consisteva la sua identità.
Se questo mito ha fornito la benzina per il vittimismo di destra e ha giustificato decenni di vuoto di idee, a sinistra ha fornito solo il posizionamento simbolico che alla lunga non ha fatto altro che infiacchire la spinta a proporre idee progressiste.
Il bluff
Walter Siti giustamente ha cercato di smascherare il bluff della destra: essendo al potere potrebbe e dovrebbe proporre idee alternative su democrazia, progresso, tecnologia, famiglia ed economia.
E, invece, pur avendo intercettato e infiammato l’umore di larghe fasce della popolazione su alcuni temi chiave (su tutti l’immigrazione), non si è ben capito quali valori positivi la destra vorrà spacciare.
In attesa di un’elaborazione politica e culturale di destra (spoiler: non ci sarà), si può per lo meno iniziare a cambiare il registro simbolico. Sebbene il mito dell’egemonia culturale di sinistra abbia perso il suo referente reale, ha mantenuto quello simbolico, ovvero il valore del definire la propria posizione.
Visto che negli ultimi anni posizioni prima scandalose e indicibili su fascismo, immigrazione e uguaglianza sono state normalizzate, molti che hanno vissuto nascosti dovrebbero gioire della liberalizzazione dovuta alla fine dell’idea che la cultura possa essere solo di sinistra.
È sorprendente, invece, che ci siano ancora alcuni intellettuali che abbiano cercato di spacciarsi come progressisti pur avendo proposto idee chiaramente conservatrici.
Il caso emblematico, tra i tanti, è quello di Luca Ricolfi, il quale si è presentato come progressista pur sostenendo posizioni classiste su scuola e società.
Con la fine del mito dell’egemonia culturale della sinistra queste posizioni ambigue dovrebbero uscire allo scoperto, così come il dichiararsi apertamente di destra. Ma la vecchia presunzione trasformata in stigma di appartenenza alla sinistra perderà via via la propria rilevanza.
Le nuove generazioni si definiranno in altri termini: post populisti (né destra né sinistra) o trasversali, cioè concentrate su questioni tematiche specifiche non necessariamente politicizzate (ambiente, identità sessuale). La diatriba resisterà come un residuo boomer, fino a esaurirsi con la scomparsa degli interessati.
Siti ha ragione nel dire che la vera questione dirimente sarà il governo della tecnologia, tema su cui sia destra che sinistra latitano per mancanza di idee e per paura di prendere posizione.
Di fronte al governo delle piattaforme e dell’intelligenza artificiale il generico e debolissimo nazionalismo della destra italiana fa sorridere per la sua colpevole inutilità. Pur evocando un passato localistico e pre-tecnologico, la destra sceglierà sempre la difesa degli interessi forti, anche quando saranno aziende multinazionali.
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