«Il tempo dei veti è finito». Il monito di Elly Schlein per continuare la collaborazione con le altre forze di opposizione è chiaro e sembra indirizzato a uno in particolare dei potenziali partner: Giuseppe Conte.

Il Movimento 5 stelle è il grande sconfitto del voto europeo. Le elezioni continentali non sono mai state la disciplina d’elezione dei grillini, che hanno sempre dato prove peggiori che alle politiche: ma stavolta sembra che questa argomentazione non basti per far dimenticare un flop che anche dal punto di vista dei parlamentari è tutto da imputare al capo politico. Sulle spalle di Conte pesa la responsabilità di una campagna sbagliata sia nel merito dei temi che nella comunicazione, secondo deputati e senatori.

Il risultato finale arriva appena a sfiorare il 10 per cento, un crollo verticale rispetto al 15,4 per cento che il Movimento aveva portato a casa alle ultime politiche. Davide Casaleggio non va per il sottile: «È un risultato disastroso. Quando prendemmo il 21 per cento alle europee del 2014 Grillo si prese il Maalox. Adesso Macron con un 15 per cento chiama le elezioni. Un amministratore delegato che gestisse un’azienda in questo modo metterebbe a disposizione il proprio ruolo». Insomma, finiti non solo i veti, ma anche i sogni di gloria che avevano portato Conte addirittura ad ambire a guidare la coalizione di centrosinistra.

Alla vigilia del voto i più pessimisti – tra questi Stefano Patuanelli, capogruppo al Senato ed ex ministro – erano arrivati a prevedere un calo fino all’11-12 per cento, ma nessuno si era spinto a prendere in considerazione un crollo di questa portata. Una sconfitta netta, che Conte si è limitato a definire un «risultato molto deludente», che segna una valutazione del tutto avventata delle priorità dell’elettorato del Movimento e della capacità dell’ex premier di mobilitarlo. «Siamo nati come movimento post ideologico, ma oggi ci ritroviamo in una politica molto orientata dalle ideologie. Non sono sicura che tutti ne siano consapevoli», confida una parlamentare.

«Siamo in un limbo in cui non siamo incisivi: viviamo in tempi in cui dobbiamo indicare l’avversario politico per quello che è. Alle politiche gli elettori avevano premiato le nostre posizioni più nette, oggi siamo tornati a essere troppo poco riconoscibili». Insomma, il Movimento ha bisogno di una collocazione netta, ma anche di essere presente tra i suoi elettori.

«Non è possibile non farsi vedere mai al Nord e limitarsi a mandare i militanti al cinema», osserva un ex parlamentare del Nord. La decisione di Conte di concentrare la campagna al Sud è stata punita dall’astensione, che ha reso vani tutti gli sforzi dell’ex premier: alla fine il partito più votato nella circoscrizione meridionale è stato il Pd, nelle Isole – dove il presidente del Movimento ha scelto di chiudere la campagna – addirittura Forza Italia. «Al Nord lo zoccolo duro continua a votare, l’elettorato al Sud è meno fidelizzato», è la valutazione di chi conosce bene gli elettori pentastellati.

Vie d’uscita?

Conte, messo di fronte al fallimento, non ha proposto ai giornalisti una prospettiva futura nella sua dichiarazione notturna. Un fatto che non è passato inosservato nel partito. «I giudizi dei cittadini sono insindacabili. Avvieremo una riflessione interna per capire le ragioni di un risultato che non è quello che ci aspettavamo», ha detto l’ex premier alla sede di via di Campo Marzio. «Una volta almeno parlava di riorganizzazione quando le cose andavano male», dice una persona che conosce bene il M5s.

Effettivamente, il lavoro sulla struttura del partito, che fosse quella sul territorio oppure quella tematica, è un grande classico del repertorio contiano quando le cose vanno male. Stavolta nulla di tutto ciò: ma a diverse ore dalla sconfitta tra i parlamentari inizia ormai a serpeggiare una certa insofferenza perché non è arrivata ancora nemmeno la convocazione di un confronto con i pesi massimi del partito.

Le cose da chiarire sono tante, «e stavolta non potrà fare resistenza alle nostre richieste come è successo finora», prevedono dal gruppo del Senato. Anche se c’è ancora chi sostiene che «Conte non è in discussione», è chiaro che qualcosa deve cambiare. A partire dal limite dei due mandati, che anche a questa tornata elettorale ha lasciato a casa una lunga serie di volti riconoscibili del Movimento, non ultimi Paola Taverna, Roberto Fico e Virginia Raggi. «Una questione che va affrontata», dicono dai gruppi parlamentari.

Un salto di qualità sulla questione mai sciolta sembra l’unica strada rimasta a Conte per uscire dall’angolo. Considerato che già nel quadro della coalizione con il Pd dovrà mostrarsi più disponibile al compromesso, almeno in casa il presidente ha bisogno di mantenere un saldo controllo dei parlamentari. Se però Conte dovesse rimanere fermo nel suo no alla deroga, si potrebbero aprire altri scenari, che non escludono una successione alla guida del Movimento.

Per il momento è fantapolitica, anche perché nel 2021 l’avvocato aveva fatto onore alla sua laurea stendendo uno «statuto seicentesco» (copyright Beppe Grillo) che rende il presidente del M5s praticamente impossibile da rimuovere senza il suo consenso. I ben informati però segnalano un rinnovato interesse del fondatore per la sua creatura: movimenti sotterranei, visto che Grillo è anche vincolato dal suo contratto di consulenza con il gruppo parlamentare, ma percettibili.

Se dovesse andare secondo i desiderata di Grillo, la favorita alla successione sarebbe senza dubbio Raggi. L’ex sindaca gode della stima granitica del fondatore, ma anche di un buon seguito personale. C’è solo un problema: Raggi è in rapporti decisamente difficili con Conte, cordialmente ricambiata. Difficilissimo che il presidente possa avallare una staffetta con lei, mentre gli viene attribuita una maggiore disponibilità al confronto con Chiara Appendino, che però da sempre è considerata meno organica al Movimento delle origini. Ma prima c’è la discussione sul terzo mandato: Conte stavolta si gioca tutto.

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