- Eni ha chiesto l’autorizzazione per realizzare il suo mega impianto di stoccaggio del carbonio (Ccs) a Ravenna. Le procedure del decreto Semplificazioni si applicano agli interventi relativi al Piano nazionale integrato energia e clima.
- Lapo Pistelli, ex vice ministro oggi responsabile Public Affairs della società ha detto che la Ccs e l’idrogeno (da metano) «sono segmenti decisivi a loro modo, ma tutti insieme, non uno contro l’altro, per poter raggiungere gli obiettivi su cui il Paese si è impegnato».
- Ci attendiamo una graduale imposizione di questa tecnologia alle popolazioni e ai territori, a meno che gli stessi non siano in grado di inaugurare, come già avvenuto in occasione dei Referendum su Acqua Pubblica, Nucleare e Trivelle, una nuova stagione di impegno e di lotta.
La notizia è arrivata la settimana scorsa: il 31 maggio 2021 Eni, unica titolare della concessione di coltivazione ubicata in Mare Adriatico, denominata «A.C 26.EA», ha chiesto l’autorizzazione al programma sperimentale di stoccaggio geologico di anidride carbonica nei livelli esauriti del campo Porto Corsini Mare a Ravenna.
Si tratta del primo tassello del più ambizioso progetto, denominato “Adriatic Blue”, riguardante la realizzazione del più grande sito del mondo di stoccaggio di CO2, con un potenziale di 500 milioni di tonnellate. Le ipotesi di sviluppo del progetto prevedono anche la produzione e l’utilizzo di idrogeno blu – ovvero da metano – e l’eventuale distribuzione a utenze industriali e domestiche e per la mobilità sostenibile, sul modello di quanto già realizzato nel Regno Unito dalla stessa Eni.
Il tentativo di Eni
Eni ha tentato lungamente di mettere le mani sui fondi del Pnrr ma ha incontrato un ostacolo insormontabile nell’opposizione della Commissione U.E. a qualsiasi progetto riguardante la produzione di idrogeno da metano, con conseguenti cattura e stoccaggio geologico di CO2.
Il decreto semplificazioni include i progetti del Piano nazionale integrato energia e clima. Essendo citati espressamente a pag 268 dal PNIEC «possibili primi impianti di cattura e sequestro della CO2, sia nel settore elettrico che in quello industriale, per portare il sistema energetico in linea con la traiettoria di completa decarbonizzazione al 2050», la norma consentirebbe iter autorizzativi semplificati anche per simili progetti.
L’8 luglio scorso il direttore Public Affairs di Eni, Lapo Pistelli, sentito dalla Commissione parlamentare per la semplificazione nell'ambito delle audizioni sulla semplificazione delle procedure amministrative connesse all'avvio e all'esercizio delle attività di impresa, ha affermato che i settori non regolati e da regolare in futuro – Ccs e idrogeno compresi- «sono segmenti decisivi a loro modo, ma tutti insieme, non uno contro l’altro, per poter raggiungere gli obiettivi (leggi Pniec) su cui il Paese si è impegnato».
La richiesta sottesa all’audizione del manager di Eni è chiara: bene i progetti sperimentali ma dateci i decreti per regolare il settore, incentivarlo e farlo decollare al pari delle altre tecnologie, tutte utili ai fini della decarbonizzazione.
I costi
Al netto dei diversi punti di vista sulla sostenibilità ambientale e climatica della Ccs, restano comunque a galla alcuni fatti. Per quanto riguarda l’Italia, gran parte della potenzialità di confinamento geologico della CO2 è localizzata in acquiferi salini profondi, in giacimenti esauriti di metano ed in giacimenti semiesauriti di petrolio leggero dove stoccare CO2 proveniente, non casualmente, da una raffineria, consente di recuperare greggio e, quindi, di compensare i costi di cattura (vedi Progetto Eor Enhanced Sibilla, nelle Marche).
Secondo uno studio dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia «i potenziali di stoccaggio nel nostro paese ci permetterebbero tranquillamente di mandare avanti le nostre centrali a carbone e a gas naturale e di ripulire i cieli dalle ingenti emissioni delle nostre raffinerie».
Secondo l’Ente nazionale energia e ambiente, la capacità totale di stoccaggio di CO2 in Italia sarebbe pari a 13.281,5 megatonnellate mentre per quanto concerne il trasporto di CO2 il MISE già nel 2012 aveva ipotizzato «la creazione di infrastrutture comuni per il trasporto della CO2, tramite opportuna rete nazionale di tubazioni».
In ultimo, secondo l’associazione Ravenna Offshore Contractor Association (Roca) il costo delle attività di decommissioning di una piattaforma oscillerebbe dai 15 ai 30 milioni di euro. Considerato che le piattaforme di Eni in mare sono 138 (fonte: Progetto Poseidon, Eni), riconvertire le stesse piuttosto che smantellarle eviterebbe costi stimabili mediamente in oltre 3,15 miliardi di euro.
Di fronte a tutti questi elementi è facile prevedere nei prossimi anni sia una forte crescita delle infrastrutture legate alla Ccs sia comprendere perché Eni abbia validissime ragioni per essere interessata alla crescita di questo mercato e ad acquisirne la leadership: “taglio” dei costi del decommissioning delle piattaforme; iperproduzioni di gas e petrolio; vantaggi economici derivanti da un’eventuale conversione della CO2 catturata in crediti ambientali vendibili.
Con i tempi che corrono, con le major fossili incaricate di rappresentare l’Italia nei consessi internazionali in cui si decidono le strategie di mitigazione e di adattamento al cambiamento climatico e con Eni che, come le vicende del Pnrr insegnano, è in grado di dettare l’agenda al governo di turno, non è lecito attendersi nulla di diverso rispetto ad una graduale imposizione di questa tecnologia alle popolazioni ed ai territori, a meno che gli stessi non siano in grado di inaugurare, come già avvenuto in occasione dei Referendum su Acqua Pubblica, Nucleare e Trivelle, una nuova stagione di impegno e di lotta.
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