- L’Eni è stata assolta dal grande processo per corruzione a Milano, ma ora i due pm dell’accusa sono indagati per non aver inserito subito nel processo un video che indicava la scarsa attendibilità di un teste chiave. Un video girato da Piero Amara.
- L’ordinanza di arresto di Amara a Potenza ricostruisce le sue manovre per depistare il processo di Milano: fin dall’inizio vengono informati i manager Eni che si occupano di processi, pur informati delle strane manovre continuano a tenere Amara tra i legali esterni del gruppo. Nei due anni dopo l’inizio dl depistaggio, ottiene oltre 700mila euro da Eni.
- Amara prova a interferire anche sull’inchiesta Ilva a Taranto dove va il suo amico procuratore Capristo, anche dall’Ilva ottiene consulenze.
Piero Amara sarà pure agli arresti, come chiesto dalla procura di Potenza, ma questa è l’unica cosa che (forse) non si augurava, tutto il resto ha preso la piega che da anni auspicava. Dopo aver provato per anni a depistare il processo a Milano per corruzione internazionale che vedeva accusata l’Eni e i suoi manager, oggi Amara vede non solo l’azienda assolta ma i pm sbeffeggiati dai giudici nella sentenza e due di loro pure indagati per aver omesso dalla documentazione processuale un video che lui stesso aveva girato nel 2014 e che mette in dubbio la credibilità di Vincenzo Armanna, accusatore - a fasi alterne - dei vertici Eni. Quello che sta succedendo a Milano, però, va incrociato con quanto ricostruito dall’ordinanza di arresto di Amara a Potenza per capire cosa resta dei depistaggi di questi anni.
Il video del 2014
Partiamo però prima da Milano. Il 28 luglio 2014 Amara registra di nascosto un incontro nella sede del gruppo di Enzo Bigotti, imprenditore vicino a Denis Verdini, con Vincenzo Armanna, Paolo Quinto, collaboratore dell’allora senatrice Pd Anna Finocchiaro, e Andrea Peruzy, vicino a Massimo D’Alema. In quella fase Armanna è un rancoroso ex manager Eni, appena licenziato per scorrettezze rilevanti sulle spese.
Da poco è iniziata l’inchiesta della procura di Milano sull’acquisto nel 2010 del giacimento in Nigeria OPL245, seguita a lungo da Armanna sul posto: l’Eni e Shell hanno pagato al governo nigeriano oltre un miliardo di dollari che poi è finito in gran parte nelle tasche di politici nigeriani, non un euro è andato allo stato. I pm pensano sia corruzione internazionale e cercano anche mazzette di ritorno a manager Eni (le troveranno solo per Armanna, 1,2 milioni). Il tribunale, poche settimane fa, accoglierà la tesi difensiva dell’Eni: operazione legittima, Eni ha trattato col governo senza essere parte di uno schema corruttivo.
Armanna, in quel video del 2014, parla di affari in Nigeria, dice di voler mettere le mani sul “50 per cento delle raffinerie dell’Eni”, vede come ostacoli due manager del gruppo: Ciro Antonio Pagano e Donatella Ranco. Armanna evoca “una valanga di merda che io faccio arrivare”, parla di far consegnare “un avviso di garanzia a Pagano”. Sembra, insomma, che Armanna intenda abusare del suo ruolo di indagato e accusatore nel processo Nigeria per regolare conti personali.
Pagano sarà indagato molto tempo dopo, da una posizione marginale, e prosciolto, Donatella Ranco non è mai stata indagata. Armanna non parla dell’ad Eni Claudio Descalzi e neppure della vicenda OPL245, ma nelle polemiche seguite alla assoluzione nel processo principale, e pure secondo i giudici che hanno esteso la sentenza, i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro hanno nascosto il video di Armanna perché minava la credibilità di Armanna come accusatore. Un possibile reato per il quale ora sono indagati a Brescia.
Il video nel processo in realtà ci è entrato da tempo, nel luglio 2019, portato dai difensori di Roberto Casula, altro manager dell’Eni nigeriana sotto accusa in quel momento. Quel video non era stato acquisito nelle indagini di De Pasquale e Spadaro, ma in quelle parallele sul depistaggio di Amara, De Pasquale e Spadaro ne erano a conoscenza ma si sono limitati a dire che per acquisirlo bisognava chiedere ai pm titolari del fascicolo.
Certo, dal punto di vista di De Pasquale e Spadaro non c’erano grandi incentivi a usarlo: Armanna parlava di altre vicende, ma dimostrava – come ha fatto in mille altre occasioni – di essere un personaggio incline a manipolare la realtà e le dichiarazioni a seconda delle sue esigenze.
Come riportato da Gianni Barbacetto sul Fatto Quotidiano, De Pasquale spiega in aula nell’udienza del 23 luglio del 2020 perché considerava il video irrilevante: tra l’altro, perché Amara sosteneva di averlo girato su mandato dell’Eni per incastrare Armanna, all’epoca nella fase delle accuse a Descalzi. Queste le parole di De Pasquale: “Amara dice che aveva avuto l’incarico di registrarlo qualora Armanna dicesse qualcosa di utile per incastrarlo… Detto questo, non ho nessuna difficoltà al deposito, però non posso giuridicamente farlo senza avere il consenso dei colleghi che stanno gestendo quell’indagine”.
Tuttavia i giudici di primo grado nelle motivazioni della sentenza di assoluzione considerano il video un elemento rilevante e che avrebbe dovuto essere portato all'attenzione della corte. Nella sentenza scrivono che «risulta incomprensibile la scelta del pubblico ministero di non depositare fra gli atti del procedimento un documento che, portando alla luce l’uso strumentale che Armanna intendeva fare delle proprie dichiarazioni e dell’auspicata conseguente attivazione dell’autorità inquirente, reca straordinari elementi in favore degli imputati» e che la decisione dei pm, «se portata a compimento, avrebbe avuto quale effetto la sottrazione alla conoscenza delle difese e del Tribunale di un dato processuale di estrema rilevanza».
Se il comportamento di De Pasquale ha sollevato molte polemiche, nessuno ha commentato quello di Eni che non sembra indicare la convinzione che il video fosse decisivo ai fini del processo. Eni ottiene il video già a febbraio 2018, dalla difesa del suo dirigente Massimo Mantovani. Eppure, l’azienda che avrebbe in mano la prova regina, non la usa. E quando viene finalmente acquisito nel processo Nigeria, oltre un anno dopo, Eni rinuncia a contro-interrogare Armanna in aula, anche se aveva l’occasione di minarne la credibilità definitivamente.
Il depistaggio di Amara
Comunque, tutto è bene quel che finisce bene per l’Eni: la sentenza di primo grado del tribunale di Milano nega la corruzione internazionale in modo così assertivo che le dichiarazioni di Armanna, tanto care ai pm, poco spostavano. In estrema sintesi, i giudici dicono che anche se una parte di quei soldi sono diventati effettivamente qualcosa che assomiglia molto a mazzette dopo che l’Eni aveva pagato (quasi mezzo miliardo cambiato in contati), non c’è evidenza di un accordo esplicito tra le parti coinvolte e neppure degli atti contrari ai doveri di ufficio di un pubblico ufficiale. C’è, in pratica, una lettura plausibile degli eventi nella quale le pratiche contestate dai pm di Milano sono perfettamente legittime.
L’Eni sarebbe quindi vittima di uno dei più clamorosi abbagli giudiziari della storia e dell’azione di due pm scorretti che hanno tentato – senza peraltro riuscirci – di escludere dal processo prove cruciali che minavano la credibilità di uno degli accusatori dei vertici, Armanna. La nota stonata in questa narrazione è che nel processo Nigeria sono state escluse anche le evidenze che dimostrano invece un tentativo di depistaggio acclarato di cui l’Eni era la beneficiaria – inconsapevole e addirittura parte offesa, ribadisce l’azienda in ogni occasione – orchestrato però da persone pagate da Eni, a cominciare dal solito Amara.
Vale la pena quindi di ripercorrere quello che emerge dall’ordinanza del giudice di Potenza che convalida le richieste di arresto nei confronti di Amara e altri. Il 23 gennaio 2015, quindi pochi mesi dopo aver registrato il video che dovrebbe servire a compromettere Armanna, Amara consegna al suo amico e sodale Carlo Maria Capristo, procuratore capo di Trani ora arrestato per la seconda volta, un esposto “anonimo” pieno di accuse inventate: un improbabile complotto contro Claudio Descalzi, ordito, tra gli altri, dai consiglieri di amministrazione Lugi Zingales e Karina Litvack che in quella fase stavano facendo domande sgradite proprio sul dossier Nigeria. Nulla si sa in pubblico di quella patacca di Amara, le prime notizie filtreranno il 10 luglio 2015 quando sempre Amara fa scrivere un articolo ad Agir, un’agenzia di stampa. Uno degli obiettivi di Amara è far aprire a Capristo una indagine specchio di quella di Milano, sul finto complotto, che permetta di accedere agli atti di quella principale.
Stando a quello che dichiara Amara a verbale nel 2018, era una sua iniziativa per accreditarsi con i vertici dell’Eni, azienda con la quale lavorava da anni, e ottenere l’incarico a seguire l’indagine fittizia che stava facendo aprire all’amico Capristo. La cosa all’inizio sembra funzionare: con tempi fulminei per la giustizia italiana, il 20 febbraio Capristo chiede all’Eni nientemeno che tutti i verbali dei consigli di amministrazioni, documenti molto sensibili per una società quotata. Sta iniziando l’operazione per sabotare il processo Nigeria da Trani. Pochi giorni dopo Amara ha già organizzato un incontro a Trani con gli avvocati interni dell’Eni, il capo dell’ufficio legale Massimo Mantovani e il responsabile del penale, Vincenzo Larocca, che arrivano per discutere del dossier anonimo sul complotto.
C’è un intoppo nel piano di Amara: Larocca chiede che la questione Trani venga affidata ad Amara. Ma Mantovani si oppone e l’incarico va al famoso penalista Carlo Federico Grosso (poi scomparso) per una questione di “standing”.
Qui succede una delle tante cose assurde della storia. Se Amara ha montato tutto il finto complotto per ottenere l’incarico di occuparsene da Eni, dopo che il piano è fallito dovrebbe disinteressarsene. Invece no, Amara continua a trafficare ed Eni, che pure ha ritenuto di tenerlo a distanza dall’affare Trani, continua ad avere rapporti con lui e a stipendiarlo per centinaia di migliaia di euro in vari procedimenti legali.
A maggio 2015 il professor Grosso, Mantovani e Larocca atterrano a Bari, diretti a Trani e trovano ad aspettarli Amara in persona. “Sono certo che fu lo stesso Larocca a informare Amara del nostro arrivo”, dice Mantovani a verbale nel 2021, perché Larocca “non voleva escluderlo del tutto” dall’affare Trani. Ma niente da fare, l’affare Trani non genera consulenze.
Ma Amara, che pure formalmente sarebbe stato scaricato dall’Eni sul finto complotto, continua a industriarsi e addirittura rilancia. Quando capisce che a Trani non si va da nessuna parte, per la resistenza di alcuni pm e della polizia giudiziaria ad approfondire l’indagine patacca, riesce a spostare il suo depistaggio sul caso Eni a Siracusa, dove può contare su un altro pm, Giancarlo Longo (che poi ha patteggiato una pena per corruzione). A Siracusa Amara diventa più creativo: invece che scrivere un “esposto” anonimo, attiva le indagini sul falso complotto Eni per sabotare il processo Nigeria di Milano con un testimone che si presta a raccontare un sequestro di persona mai avvenuto connesso al grande complotto contro Descalzi.
Longo si autoassegna il fascicolo e lo usa per accedere ad altre informazioni sensibili: a gennaio 2016, per esempio, riesce a farsi consegnare da Eni tutte le mail interne che riguardano le segnalazioni di presunti illeciti commessi dai manager Eni sul caso Nigeria. Poi, con una mossa mai vista prima nella cronaca giudiziaria, manda un avviso di garanzia ai consiglieri scomodi Zingales e Litvack contestando la diffamazione prima che il soggetto diffamato sporga denuncia e prima che il diffamatore diffami. Il diffamato, cioè l’Eni, non poteva denunciare perché niente era uscito sui giornali: le prime notizie divulgate sul presunto complotto riguardano proprio l’inchiesta di Longo, su una diffamazione che mai si è consumata.
Eni continua a pagare Amara
Nonostante i traffici di Trani fossero ben conosciuti dall’Eni, l’azienda guidata da Claudio Descalzi si libera di Amara? Assolutamente no. Racconta Vincenzo Armanna, la cui attendibilità è sempre scarsa, che Amara nel 2016 gli propone di rivedere le sue accuse al processo Nigeria in un patto con il numero tre del gruppo, Claudio Granata. L’Eni smentisce tutto. Anche ignorando l’opaco Armanna, l’ordinanza della gip di Potenza chiarisce che nel 2016 quattro diverse società del gruppo Eni pagano comunque compensi rilevanti ad Amara per un totale di 533mila euro. Nel 2017 ne ottiene altri 230.000. L’azienda ha sempre spiegato che Amara difendeva singoli manager del gruppo, perché Eni si avvale spesso di legali esterni, nessuna connessione con i traffici illeciti dell’avvocato. Resta il fatto che Amara continuava a essere nel giro di Eni nonostante le sue strane manovre fossero ben note ai vertici dell’azienda. E non soltanto sul fronte Nigeria.
Obiettivo Ilva
Mentre Amara traffica a Siracusa, si adopera anche perché il suo amico Carlo Maria Capristo passi dalla procura di Trani alla guida di quella di Taranto. Amara muove tutta la sua rete che, tramite il misterioso ex poliziotto Filippo Paradiso, riesce a far arrivare la richiesta anche a Maria Elisabetta Alberti Casellati, all’epoca membro del Csm e oggi presidente del Senato. Anche l’ex ministro del Pd Francesco Boccia, pugliese, si informa della nomina.
A marzo 2016 il Csm vota all’unanimità e Capristo va a Taranto. Un attimo dopo pure Amara inizia a occuparsi di Taranto e del processo più sensibile in città: l’inchiesta Ambiente Svenduto sull’Ilva. Capristo si dimostra subito favorevole a un’ipotesi di patteggiamento che, in estrema sintesi, avrebbe preservato l’attività degli stabilimenti e limitato le conseguenze penali per gli azionisti, la famiglia Riva (il predecessore di Capristo, Franco Sebastio, si era sempre opposto). Amara punta probabilmente ad accreditarsi con la famiglia Riva come uno che può far andare le cose nel verso giusto e il primo passo è ottenere una consulenza dall’Ilva, in quel momento in gestione commissariale e affidata al commercialista Enrico Laghi (oggi ad Atlantia dei Benetton).
Nel 2020, già fuori da Eni, l’ex responsabile degli affari penali del gruppo petrolifero Larocca racconta di aver partecipato a una cena per festeggiare la nomina di Capristo a Roma, organizzata da Amara, a inizio 2016. Lì, oltre a Capristo, c’era Nicola Nicoletti, manager della società di consulenza Pwc, già consulente di Eni, e in quel momento consulente dell’Ilva su cui Capristo avrebbe dovuto indagare. A Taranto si replica lo schema di Trani.
Vari testimoni raccontano che Nicoletti si dà subito da fare per assegnare incarichi ad Amara nel processo Ilva, come intermediario con Capristo. Chi glieli dia non è chiaro: il commissario Laghi nega di averlo ordinato lui, ma Amara viene comunque pagato dall’Ilva 60.000 euro nel 2016 e 30.000 nel 2017. Stando all’ordinanza di arresto di Potenza, questi contratti vengono approvati – da chi? – violando le norme che il comitato di sorveglianza doveva far rispettare. E in quel comitato c’era uno che Amara lo conosceva bene, cioè il solito Massimo Mantovani, in quel momento sempre responsabile degli affari legali dell’Eni. Mantovani nega di aver approvato la consulenza ad Amara che però viene deliberata dal comitato di sorveglianza a giugno e poi a settembre 2016. Capristo poi viene arrestato una prima volta a maggio 2019 con l’accusa di aver provato ad aggiustare un processo a Trani in tutt’altre vicende, poi gli viene imposto l’obbligo di dimora nei giorni scorsi, sempre dalla procura di Potenza che considera corruttivi i suoi rapporti con Amara. In mezzo c’è la condanna a secoli di carcere per tutti gli imputati nel processo Ambiente svenduto.
L’eredità avvelenata
A Milano, invece, il depistaggio di Amara continua a far danni: le sue manovre per il finto complotto non sono entrate nel processo principale su Eni e Nigeria, anche se quello volevano influenzare, però hanno contribuito a creare una nebbia di false verità e ricatti che include il tentativo di infangare i giudici del processo (Amara aveva sparso vaghe accuse sul presidente del collegio giudicante Marco Tremolada, la procura di Brescia ha aperto un fascicolo e l’ha chiuso subito archiviando), poi i verbali sulla presunta loggia Ungheria che hanno innescato la rottura tra il pm Paolo Storari – che indagava con la collega Laura Pedio sulle manovre di Amara – e il procuratore capo Francesco Greco.
Così ci sono Spadaro e De Pasquale indagati, la procura criticata da tutti per la gestione del processo e derisa dalla sentenza. Eni, che nel frattempo si è liberata di tutti i manager toccati da queste vicende (da Nicoletti a Mantovani a Larocc) esce illibata e rigenerata.
Amara, che sta dando da lavorare a procure di mezza Italia, continua a rimanere un enigma: avvocato di provincia che, mentre riceve parcelle dall’Eni, smuove mezzo mondo per depistare un processo cruciale per Eni, cercando incarichi da un amico nell’ufficio legale di Eni ma alle spalle di Eni e del suo amministratore delegato Claudio Descalzi che ha ottenuto da poco il terzo mandato e già pensa a un ulteriore rinnovo, quasi risarcitorio. Eni esce rigenerata da questa vicenda e la magistratura a pezzi, spaccata anche dalle rivelazioni del solito Amara di una fantomatica “loggia Ungheria” che governa in modo occulto il sistema giustizia.
Non tutto questo disastro è responsabilità di Amara, ma certo questo è lo scenario che Amara sperava di vedere quando ha iniziato a trafficare intorno ai più delicati processi italiani.
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