I dissidenti fanno ironia sulle liste: «Vannacci? Allora candidiamo i Måneskin, che hanno più voti». Il veto su Draghi in Ue acuisce la distanza con Giorgetti, in Veneto arriva la rottura con Forza Italia
Prima il Nord, poi il Sud e infine l’Europa. Quello che doveva essere uno schema di conquista immaginato da Matteo Salvini negli anni scorsi si è oggi trasformato nella geografia della sua crisi politica. Nel giorno del consiglio federale, che ha definito il simbolo da presentare alle europee, non c’è un angolo in cui il vicepremier non sia alle prese con qualche problema.
L’ultimo nodo, sia esterno che interno, riguarda l’Unione europea e il veto posto sul nome di Mario Draghi come ipotetico presidente della Commissione. «La Lega ha già fatto i suoi sacrifici con Draghi, e li abbiamo anche scontati. Come dicono a Genova, ’emmo za deto», ha detto Salvini.
Parole e musica che però non saranno suonate come una piacevole melodia in via XX Settembre, dove ha sede il ministero dell’Economia guidato da Giancarlo Giorgetti, che da sempre vanta un buon feeling con l’ex presidente della Banca centrale europea.
Se il numero uno del Mef potesse esprimere una preferenza, darebbe senza tentennamenti la spinta alla candidatura di Draghi alla guida della Commissione. Per stile, comunque, Giorgetti accoglie in silenzio le reazioni del suo leader.
Vannacci indigesto
Sempre in tema di Europa, il pensiero plana su un altro dilemma, quello delle liste da presentare entro fine mese, che stanno provocando turbolenze. A cominciare dal nome del generale Roberto Vannacci. La telenovela sulla candidatura con la Lega non è ancora finita, occorre attendere qualche altra puntata. «Ne parlerò alla presentazione del mio libro il 25 aprile (a Milano, ndr)», ha fatto sapere Salvini.
Nel partito danno per scontato che sia la data scelta per l’annuncio dell’arruolamento del generale sotto le insegne salviniane. Rigorosamente da indipendente. Ma fioccano le reazioni piccate.
«Non stiamo costruendo delle liste, ma un cartello elettorale per ottenere il massimo dei voti. A questo punto al posto di Vannacci, di cui conosciamo poche righe di un libro, candidiamo i Måneskin, che hanno sicuramente più preferenze anche tra i giovani», dice con sarcasmo Paolo Grimoldi, ex segretario regionale in Lombardia. «L’unica difficoltà», incalza ancora Grimoldi, «sarebbe quella di convincerli a candidarsi».
Del resto il nome di Vannacci ha portato al limite della sopportazione addirittura un fedelissimo di Salvini, l’ex ministro delle Politiche agricole Gian Marco Centinaio, che ha messo agli atti il suo “no” al generale.
Alleati e avversari
La più che probabile candidatura del militare è tuttavia solo il detonatore dei malesseri settentrionali, sintetizzato dall’anatema di Umberto Bossi: «Serve un nuovo leader». Di fatto sono sotto accusa tutte le scelte politiche fondamentali di Salvini. A partire dalla battaglia per il ponte sullo Stretto. E sulla grande opera riecheggia un’altra nota dolente per il vicepremier: il Mezzogiorno.
Doveva essere terra di conquista per una Lega in versione nazionale, ma è diventato territorio prediletto per le scorribande di “cacicchi” in cerca di un tetto politico.
L’ultimo guaio è arrivato con il coinvolgimento di Luca Sammartino, vicepresidente della regione Sicilia, in un’inchiesta per corruzione e voto di scambio. Proprio sotto la leadership di Salvini era diventato il punto di riferimento del partito nell’isola. Alla Camera è anche stata eletta la compagna di vita di Sammartino, l’attuale deputata Valeria Sudano, che «si sta caratterizzando per essere una delle parlamentari più assenteiste di sempre», evidenzia Grimoldi.
In effetti in questa legislatura è risultata presente solo nel 17 per cento delle votazioni in aula: per il resto era assente o “in missione”. «Il problema di selezione della classe dirigente è sotto gli occhi di tutti», si ragiona nel partito. I vertici fanno spallucce.
E così, per spegnere gli incendi, Salvini agita l’estintore dei soliti temi propagandistici. «Entro maggio voglio far arrivare in parlamento il testo sul piano casa», con lo scopo di sanare le «difformità all’interno delle mura domestiche che bloccano la possibilità di vendere o comprare casa». Visto il timing, facile pensare che il condono edilizio mascherato sia uno spot perfetto per il voto di giugno per fare il paio con l’autonomia differenziata. Sul punto il ministro Roberto Calderoli ha rilanciato al consiglio federale: «Il 29 aprile sarà in aula alla Camera».
Le insofferenze esondano nei rapporti con gli altri partiti di centrodestra. Alla Camera la Lega è entrata in rotta di collisione con gli alleati su un ordine del giorno, presentato dal Pd, al decreto Pnrr per depotenziare l’emendamento che consente la presenza nei consultori delle associazioni pro vita. Addirittura 15 deputati leghisti, tra cui il capogruppo Riccardo Molinari, si sono astenuti, a differenza degli alleati che hanno votato contro. «Abbiamo lasciato libertà di coscienza», ha minimizzato Molinari.
Ma le vicende di Montecitorio impallidiscono di fronte alla guerra senza quartiere iniziata in Veneto con Forza Italia. Il deputato leghista e segretario regionale, Alberto Stefani, ha rinfacciato ai berlusconiani di «essere fuori dal perimetro della maggioranza».
Un assist perfetto all’ex sindaco di Verona, Flavio Tosi, che a nome dei forzisti ha ribattuto: «Da quando Zaia è stato rieletto nel 2020 per il suo terzo mandato, non ha mai convocato un vertice di maggioranza con gli alleati che riguardasse il governo regionale». I nervi sono tesi, FI è di fatto fuori dall’alleanza in Veneto.
Poco male per Salvini, anche su questo punto: è pronto a lanciarsi a capofitto in una delle sue attività preferite, la campagna elettorale. Così nelle prossime ore girerà la Basilicata per il voto alle regionali di domenica e lunedì. Mentre ha pianificato i comizi nelle piazze interessate dalle amministrative di giugno.
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