Durante l’ultima udienza per l’omicidio del capo ultras e narcotrafficante Piscitelli, detto Diabolik, ha parlato il collaboratore di giustizia Fabrizio Capogna: un racconto di violenza e affari milionari
Una città sotto assedio dove chi sgarra viene sequestrato o ucciso, dove i boss fanno affari godendo di comode detenzioni, di comunità a disposizione e latitanze dorate. Dove anche in carcere tutti i malviventi hanno cellulari per continuare gli affari. Tutto avviene per accaparrarsi e vendere la coca nelle sue variegate qualità: squama, boliviana, peruviana. A raccontare Roma è Fabrizio Capogna, una vita da trafficante di droga e oggi collaboratore di giustizia, ascoltato nel processo che vede alla sbarra il presunto killer di Fabrizio Piscitelli.
Piscitelli è il narco-ultrà ucciso nel parco degli Acquedotti, il 7 agosto 2019 e che contava tra gli amici Paolo Signorelli, portavoce del ministro Francesco Lollobrigida fino a che non ha dovuto rassegnare le dimissioni proprio per la pubblicazione della chat con Piscitelli detto “Diabolik” in cui insultavano gli ebrei.
A processo c'è Raul Esteban Calderon, considerato l'uomo che per conto dei Senese (c'è un'indagine a carico del boss Michele e dei suoi) avrebbe ucciso con un colpo alla nuca il capo ultras della Lazio. Capogna, invece, ha vissuto una vita da criminale: da una piazza di spaccio nella periferia romana di Tor Bella Monaca a narcotrafficante. «Mi volevano uccidere per una partita di stupefacenti non pagata. Nella droga è uno schifo, c’è una regola: tutti amici, nessuno è amico», dice Capogna che è diventato grazie a un canale straniero.
Gli anonimi albanesi
Gli albanesi ribaltano il mercato perché offrono la cocaina a due, tre euro in meno rispetto alla concorrenza e il riferimento di Capogna diventa Lolli. Gli albanesi esistono solo con i nomignoli, vivono spesso all'estero, protetti nelle comunicazioni da dispostivi criptati non intercettabili. Il collaboratore non sa indicare nome e cognome di Lolli, ma solo riconoscerlo in foto. «Per iniziare gli affari siamo andati dal padre che aveva un autolavaggio in periferia a Roma, gli abbiamo chiesto un contatto del figlio che organizzava i suoi traffici ad Amsterdam. In poco tempo abbiamo incontrato un suo gregario», racconta Capogna.
In quel momento comprava la droga a 31 euro al grammo, il fedelissimo di Lolli gli offre un prezzo choc, 26 euro, gli cede cinque grammi di coca per assaggiare e un blackberry. Inizia la giostra, il trafficante arriva a smerciare fino a 120 chili di droga al mese e incontra due volte Lolli in Olanda, ricorda il viso, ma non ha mai conosciuto il suo nome. «Da quando sono entrato in affari con loro sono stato in grado di smerciare la droga in ogni quartiere, ho riempito la città».
La strada verso la collaborazione con la giustizia di Capogna inizia quando si muove contro di lui una vera e propria macchina da guerra, quella degli uomini di Michele Senese, detto il pazzo, unico e vero re di Roma. Capogna conosce alcuni uomini di Senese come Giuseppe Molisso, ma non basta per salvarsi, si muove lui, si muove Leandro Bennato, criminale spietato, e la loro banda. Vogliono convincerlo a smettere di comprare la droga da Lolli perché Roma è roba loro e nessuno poteva fare affari senza un loro guadagno. Capogna non ne vuole sapere: ballano migliaia di euro di guadagno in più e i soldi sono tutto in questa storia.
Il narcotrafficante, ora pentito, si avvicina così ad Antonio Gala, un altro peso massimo del traffico di droga, ora latitante imprendibile. Visti i rapporti di Gala con uomini della camorra, Capogna avvia contatti anche per costruirsi una protezione vista l'insistenza della coppia Bennato-Molisso.
Non basta per evitare ripercussioni. Capogna si trova di fronte un coltello e un Ak47, in pratica Bennato e Molisso non accettavano che nella capitale arrivasse droga senza la loro intermediazione, alla fine hanno costruito contatti anche con Lolli e Capogna è uscito di scena, anni dopo, quando ha temuto per la sua vita. «Sono venuti a casa mia nel 2023 per una partita di droga, mi hanno preso a pugni, erano uomini di Bennato e Molisso, ho temuto per la mia vita. Così sono andato alla polizia e mi sono pentito».
Nel corso dell’udienza è stato sentito anche Simone Capogna, fratello di Fabrizio, che ha ricordato le torture subite dalle vittime di Bennato, presunte responsabili di un furto di droga, 107 chili di coca.
Quelle strane lettere
Capogna ha risposto alle domande del pubblico ministero, Francesco Cascini, raccontando alcuni episodi accaduti dopo l'omicidio Diabolik. In particolare ha riferito di aver saputo di un pestaggio che avrebbe subito Esteban Calderon in carcere da parte di Dorian Pedoku, ora latitante dopo una fuga dalla comunità di recupero dove si trovava. Pedoku è stato amico di Piscitelli e l'episodio dovrebbe indicare la possibile responsabilità dell'agguato.
Capogna ha riferito di lettere inviate dal narcotrafficante, Arben Zogu detto Riccadino, a Molisso e Bennato nelle quali li avrebbe minacciati per l'omicidio di Diabolik. Una circostanza che ha suscitato l'interesse e il disappunto della difesa di Calderon, rappresentata dall'avvocata Eleonora Nicla Moiraghi.
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