Un asse di farmacisti, tutto spostato a destra tra Fratelli d’Italia e Forza Italia, con uno scopo preciso e prevedibile: potenziare il ruolo delle farmacie. Il sottosegretario alla Salute, di professione farmacista, Marcello Gemmato, e il presidente della Federazione degli ordini dei farmacisti italiani (Fofi), l’ex vicepresidente della Camera di FI e capo dipartimento sanità del partito di Antonio Tajani, Andrea Mandelli, stanno mettendo a punto una piccola rivoluzione, gradita alla categoria di appartenenza.

A completare il tris c’è un altro forzista, il ministro della Pubblica amministrazione, Paolo Zangrillo, che ha firmato il disegno di legge sulla semplificazione dei servizi. Uno degli articoli del testo prevede che le farmacie possano diventare dei veri laboratori di analisi.

La motivazione è chiara: rendere più capillare un servizio per i cittadini, nell’ambito del progetto delle farmacie dei servizi. «Ciò consentirebbe di ottenere in farmacia risultati analitici di prima istanza, spesso dirimenti nelle diagnosi mediche, soprattutto in favore di quei cittadini che non hanno la possibilità di spostarsi fino al centro più vicino», si legge nella relazione che accompagna il testo del provvedimento.

Alle spalle c’è una sapiente opera di regia orchestrata da Gemmato, fedelissimo di Giorgia Meloni che è stato uno dei pochi a vederla nei giorni di vacanza in Puglia. Uno dei volti in ascesa del melonismo, appunto. Da farmacista, la soluzione è apparsa logica e anche popolare. Del resto da tempo predica un ruolo sempre più centrale per la sua professione, la farmacia come polo della sanità di prossimità. Ed ecco fatto. L’intesa con Mandelli è stata facile. L’ex vicepresidente della Camera non è stato rieletto in parlamento con Forza Italia, ma resta punto di riferimento per i farmacisti, essendo a capo della federazione degli ordine.

C’è però un problema messo in risalto dagli addetti ai lavori: il possibile abbassamento degli standard qualitativi. Perché per rendere adeguati i locali delle farmacie servirebbero investimenti imponenti. E così si è fatto ricorso a varie deroghe, almeno secondo la prima formulazione del testo. La protesta è stata sollevata dall’Unione nazionale ambulatori e poliambulatori (Uap) così come da settori della Federlab in cui uno dei punti di riferimento resta l’ex senatore Vincenzo D’Anna. Le due organizzazioni sono divise su tutto, ma hanno un obiettivo comune: sottolineare la disparità di trattamento previsto dal disegno di legge governativo.

Lobby da banco

Oggi i laboratori devono avere oltre 400 requisiti per essere aperti, tra norme relative al personale sanitario e ai locali appositamente adibiti. «Per le farmacie non sarebbe la stessa cosa», dicono dall’Uap a Domani.

Configurata così non è un’apertura al mercato, ma un’iniziativa che sembra la concessione fatta a una lobby. Così i farmacisti possono avere due strade: costruire delle apposite strutture esterne ai locali, come è avvenuto per i test dei tamponi durante il picco della pandemia, diventando dei mini ambulatori; oppure appaltare gli esami a dei service esterni.

Nel secondo caso, avrebbero la funzione di semplici punti prelievo e dovrebbero perciò stipulare, successivamente, un accordo con gli ambulatori che analizzerebbero i campioni, sballottati da un luogo all’altro. E se qualcosa dovesse andare storto, pazienza. Sarebbero gli utenti a trovarsi di fronte a un disservizio.

Da qui l’inizio della battaglia. «Il diritto alla salute, sancito dall’articolo 32 della Costituzione, non può e non deve essere sacrificato per favorire interessi di una lobby o per imporre alle aziende sanitarie economie di scala che massificano le attività a discapito della qualità dell’assistenza. E quindi dei cittadini stessi», incalza Mariastella Giorlandino, presidente dell’Uap e numero uno della fondazione Artemisia. «Denigrare queste realtà», insiste Giorlandino, «significa non comprendere la reale situazione e le esigenze della popolazione a vantaggio di interessi di parte».

Dopo il Covid

Non solo le parti in causa manifestano perplessità. «Non posso dire io quali siano gli interessi in ballo relativamente alla questione, ma di certo i vertici spingono», dice a Domani Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e odontoiatri (Fnomceo). Ci sono delle forze che vanno «verso il ruolo più ampio delle farmacie che, qualora dovessero erogare nuovi servizi, dovrebbero essere messe nelle condizioni di avere gli stessi requisiti delle strutture che già realizzano quegli stessi servizi», sottolinea il numero della Fnomceo.

La tesi della lobby in marcia è respinta da Mandelli. «Non c’è alcun interesse di parte, ma solo la volontà del governo, sulla scia di una legge del 2009, la numero 69 sulla Farmacia dei servizi, di potenziare la medicina di prossimità», dice il presidente della Fofi. «Si tratta – spiega – di non vanificare la lezione più importante che ci portiamo in eredità dalla pandemia, quella di rafforzare la sanità del territorio: è lì che convergono i bisogni di salute dei cittadini ai quali il servizio sanitario deve rispondere in maniera efficace e immediata».

Da qui la presa di posizione sul modello europeo: «Il rafforzamento dei servizi erogati dai farmacisti, soprattutto sul fronte della prevenzione, è già una realtà in Francia e in altri paesi europei», rilancia Mandelli.

Resta il fatto che la vicenda può avere ricadute anche sul settore degli ambulatori, già oggi occupato in gran parte da pochi player internazionali in Italia, riducendo gli spazi per la concorrenza. Le multinazionali avrebbero la potenza economica per fare accordi di massa con le farmacie per fungere da service esterni dopo i prelievi.

Certo, l’iter del disegno di legge sulla semplificazione non è ancora partito, nonostante l’approvazione in Consiglio dello scorso marzo. Il testo è stato incardinato al Senato. In autunno inoltrato potrebbe avviare effettivamente il percorso con l’approvazione in prima lettura che difficilmente vedrà la luce entro l’anno.

I tempi della riforma non si annunciano brevi. Ma cambia poco. Le associazioni di categoria sono sul piede di guerra: il timore è che a prevalere siano gli interessi delle “lobby” e non quelli dei cittadini, titolari del diritto alla cura, alla salute.

Mediatori in campo

In parlamento c’è chi sta cercando di fare da pontiere. In primis la deputata di FdI, Marta Schifone, proveniente dal mondo delle farmacie e in seconda battuta c’è Ylenia Lucaselli, che a Montecitorio gestisce alcuni dei dossier complicati per conto del partito di Meloni. Il punto di caduta, comunque, non è stato ancora individuato.

Anelli lancia sposta il focus altrove: «La vera urgenza oggi non è pensare alle farmacie, ma al fatto che nei nostri ospedali non ci siano medici. Sul nostro territorio mancano gli operatori sanitari: non solo camici bianchi, ma anche infermieri, anche psicologici, fisioterapisti e via discorrendo». Quindi, ribadisce il presidente della federazione dei dottori, «la priorità della nostra sanità è diversa, differente da quella prospettata».

Un quesito aleggia ancora: quali sono le conseguenze di potenziarne i servizi? «Ampliando la lista degli accreditati a realizzare un dato servizio, sarebbe anche necessario capire che cosa intendano fare governo e regioni: dividere il budget previsto per questo tipo di attività o aumentarlo?», domanda Anelli.

Le risorse a disposizione potrebbero non bastare per rendere i servizi di qualità così come ci si aspetta e così come dovrebbe essere.

Si parla, inoltre, sempre più spesso di migrazione sanitaria verso le strutture private del Paese e con le farmacie trasformate in micro ambulatori si «andrebbe – insiste Anelli - a consolidare il versante privatistico». Il tutto nel segno meloniano, tra lobby e privati che beneficiano della mano governativa.

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