- Intervista a Piero Fassino, l’ultimo segretario dei Ds: «Quando finisce una storia ti chiedi sempre cosa lascia. E io dico che il principale lascito è il valore assoluto della democrazia».
- «Da Gramsci in poi, e grazie a Togliatti, la lettura cambia. Gradualmente la democrazia diventa prima lo spazio più favorevole al socialismo, poi il contesto dentro cui va pensata la trasformazione della società, e infine con Berlinguer assume un valore universale: non c’è trasformazione se non fondata sulla democrazia».
- «Una evoluzione a cui Emanuele Macaluso, che ci ha lasciato in questi giorni, ha dato un contributo convinto e prezioso».
«Quando finisce una storia ti chiedi sempre cosa lascia. E io dico che il principale lascito è il valore assoluto della democrazia. È tanto più importante perché nei primi anni della sua vita il Pci, con Bordiga, contesta la democrazia come strumento borghese che impedisce la rivoluzione. Da Gramsci in poi, e grazie a Togliatti, la lettura cambia. Gradualmente la democrazia diventa prima lo spazio più favorevole al socialismo, poi il contesto dentro cui va pensata la trasformazione della società, e infine con Berlinguer assume un valore universale: non c’è trasformazione se non fondata sulla democrazia. Una evoluzione a cui Emanuele Macaluso, che ci ha lasciato in questi giorni, ha dato un contributo convinto e prezioso».
Da comunisti a democratici e addirittura liberali?
Oggi la democrazia è insidiata non solo dalle dittature, ma anche dalle “democrazie illiberali”, di cui ci sono manifestazioni evidenti se guardiamo a quel che accade oggi – per fare esempi – in Turchia, Russia, Ungheria o Polonia. Il Pci invece ci lascia la democrazia liberale. E ripeto, era un partito nato per “fare come in Russia”. La scissione di Livorno nasce perché i socialisti sono accusati di non voler fare la rivoluzione. Poi però la storia impone un’altra traiettoria: il Pci si batte contro il fascismo per la libertà, è protagonista della Resistenza, concorre a scrivere la Costituzione, è un costruttore della Repubblica. E Togliatti con la svolta di Salerno e la via italiana al socialismo radica il partito in una cultura democratica. Un cammino tuttavia che subisce l’“infarto” del ‘56, quando il Pci non condanna l’invasione sovietica dell’Ungheria.
Togliatti non vuole la rivoluzione. Lei dice: scampato pericolo?
A consuntivo direi che è molto meglio essere stati il partito della democrazia che quello della rivoluzione, considerato come è andata dove si è fatta.
Nel suo libro, lo ha notato Marcello Sorgi, lei descrive un Berlinguer che frena il rinnovamento.
No, non è così. Berlinguer è stato un grandissimo dirigente, ha meriti storici riconosciuti da tutti: ha ricollocato il Pci nella Comunità europea, ha superato i pregiudizi sulla Nato, ha strappato con Mosca, ha dato al partito un profilo europeo e occidentale. È con lui che il Pci raggiunge il 33 per cento, nel ‘75 e nel ‘76.
...d’altro canto...
Berlinguer ha creduto che i regimi comunisti potessero democratizzarsi. E anzi le critiche all’Urss erano tanto più aspre nella speranza che sollecitassero quei regimi a evolvere. Non è un rimprovero, ma una constatazione. Enrico parla di Terza via, quella fra comunismo sovietico e socialdemocrazia. Non rinuncia all’orizzonte socialista perché lo pensa radicato nella democrazia. È morto nell’84, non ha potuto vedere che il tentativo di Gorbaciov di democratizzare il comunismo fallisce e che il comunismo era irriformabile.
Un pezzo di questo mancato rinnovamento è il mancato rapporto fra Pci e Psi?
Con Craxi Berlinguer fu aspro. Ma anche Craxi fu aspro con noi. Qui c’è un dato più generale, la sinistra italiana è stata sempre minata da un tarlo, la pretesa di ciascuna forza politica di volerla rappresentare tutta. Invece la sinistra italiana non è rappresentabile solo da un partito. E non solo in Italia. In tutta Europa la sinistra è rappresentata da più partiti. Ma la pluralità è un valore se non si traduce in conflitto distruttivo.
Tarlo eterno: non è la stessa pretesa del Pd del 2007 che non ha voluto l’alleanza a sinistra?
Il Pd è nato con l’ambizione di unire ciò che a lungo era stato diviso. Altri non hanno accettato questa impostazione. E si sono scissi. Il male oscuro delle divisioni è duro da estirpare. Si veda quello che succede con Renzi.
Il male oscuro della divisione non riguarda solo la sinistra radicale?
No, basti pensare a Craxi. Per ridare spazio al Psi ha aperto due sfide: ha sfidato la Dc per l’egemonia nel governo e il Pci per l’egemonia nella sinistra. In una prima fase gli ha dato risultati: è diventato presidente del Consiglio e ha messo in difficoltà il Pci.
Berlinguer non è stato tenero con Craxi. E lo storico Canfora nel suo Metamorfosi spiega che Togliatti puntava a un rapporto con la Dc, non con il Psi. Per questo dal più grande Partito comunista d’occidente non nasce un grande partito socialista, o socialdemocratico?
Questo è il limite del Pci, la sua contraddizione non risolta. Negli anni Ottanta il New York Times ha scritto che il Pci era un partito riformista che di “comunista” aveva solo il nome. Non era lontano dal vero: basta esaminare i programmi del Pci degli anni ‘80 per constatare la grande affinità con le politiche dei socialdemocratici europei, della Spd tedesca, dei laburisti inglesi. Sono gli anni in cui Berlinguer e Napolitano allacciano rapporti intensi con i leader socialdemocratici, Palme, Brandt, Mitterrand, González. Eravamo un partito riformista europeo, ma continuavamo a sperare che il comunismo potesse evolvere democraticamente. E poi c’era un pregiudizio verso parole come “socialista” e “riformista” che richiamavano un’altra storia a cui si temeva di essere omologati.
Poi c’è Tangentopoli, la “questione morale”, e il Pci in funzione anti Psi diventa, diremmo oggi, giustizialista.
Non ho mai amato il giustizialismo, ma il giudizio di Berlinguer non era moralistico, né tanto meno giustizialista. Era la denuncia allarmata di una situazione che le inchieste dimostrarono vera. E se le inchieste non sono state condotte sempre in modo corretto e ne è derivato un diffuso animo giustizialista, questo non può essere imputato a Berlinguer e al Pci. E voglio qui di nuovo ricordare il contributo prezioso dato da Emanuele Macaluso a contrastare derive giustizialista.
E diventa impossibile usare la parola socialismo?
Sono le inchieste di Tangentopoli ad aver bruciato quella parola. Era l’assillo di Occhetto, che peraltro aveva chiaro che il nostro approdo non poteva che essere nella famiglia socialista europea. Tant’è che il primo atto successivo alla fondazione del Pds è la richiesta di aderire all’Internazionale socialista.
Il Pds tifa Mani pulite, diventate quelli che stanno con i magistrati.
Giustizialisti no. Ma non si potevano negare i fatti corruttivi accertati. È vero, abbiamo candidato alcuni magistrati. Personalmente penso che non sia consigliabile se non in casi eccezionali per evitare sovrapposizioni politicamente equivoche. Ma quelli erano anni in cui l’azione della magistratura suppliva a un vuoto della politica. Conta il contesto di cui i partiti non possono non tener conto.
Morto Berlinguer, anche con Natta il cambiamento va a rilento?
Natta era un leader riconosciuto e stimato, ma rappresentava un’irenica continuità, senza smalto. A fronte del dinamismo di Craxi noi apparivamo fermi. Tant’è che nelle elezioni dell’87 torniamo al 26 per cento, come nel ’68. In dieci anni il rapporto elettorale tra Pci e Psi passa da 4 a 1 a 2 a 1.
Natta si dimette e arrivate voi, i quarantenni. Perché la svolta non finisce bene?
In realtà la svolta è finita bene: il Pds è nato con il consenso del 67 per cento degli iscritti. Certo, dopo settant’anni di storia così intensa, la svolta non poteva che essere vissuta in modo traumatico. Ma bisognava essere molto più rapidi. Due congressi successivi rallentarono la marcia che durò sedici mesi, facendoci arrivare dopo la caduta del Muro, quando tutto il nostro cammino poteva consentirci di arrivare prima di quel crollo. La lentezza della svolta ne ha ridotto la capacità attrattiva. E peraltro anche la minoranza si è divisa: una parte è restata, una parte ha dato vita a Rifondazione comunista.
Anche stavolta il partito socialista non nasce. E quando arriverà il Pd, nemmeno. La scissione di Renzi non è il ritorno di un’occasione?
Il Pd nasce come incontro fra diversi riformismi italiani, di matrice socialista, cattolica e laica. In Europa il Pd sta nel Pse e a Strasburgo siede nel gruppo dei Socialisti e democratici. In Italia la sinistra mantiene un assetto plurale e dentro ci stanno anche le idee di Italia viva e di Renzi. Certo, sappiamo che Renzi è una personalità forte e sta in un posto solo se lo comanda. Persa la leadership del Pd ha dato vita a un suo partito, così come ha destabilizzato il governo Letta e oggi tenta di farlo con il governo Conte.
Voi ex Pci lo avete sempre percepito come un corpo estraneo?
No. Quando lo abbiamo eletto segretario ha ricevuto un consenso larghissimo. E fra i segretari del Pd abbiamo avuto Franceschini, proveniente da una storia democristiana. Anzi, io mi sono schierato per la sua elezione perché se l’ex segretario Ds avesse sostenuto Bersani, tutti i Ds si sarebbero schierati per Bersani e tutti gli ex Margherita sul fronte opposto intorno a Franceschini. E avremmo liquidato il Pd. Abbiamo salvato il Pd, dimostrando che le culture e le storie potevano incontrarsi e fondersi.
Adesso però nascerà un partito di centro.
Vedremo. Se si organizza un centrismo democratico e non sovranista sarà un nostro interlocutore. La vocazione maggioritaria non significa essere soli, ma essere un partito di vasto radicamento sociale ed elettorale che utilizza la sua forza per costruire una coalizione larga.
Una coalizione in cui ci sarà Renzi?
In politica mai dire mai. E io non mi rassegno a una deriva di Italia viva. Ma non dipende solo dal Pd, dipende prima di tutto da Renzi. Deve cambiare atteggiamento. Non deve pretendere di venire al tavolo e dire che si può fare solo quel che vuole lui. Serve umiltà e reciproco rispetto.
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