«Questa sera siamo davanti alla storia», le parole sono un tantino enfatiche ma il tono non lo è per niente, Alice Morotti prova ad aprire «la riunione». Ma non è facile. È la responsabile delle donne del Pd di Bologna. E ha di fronte una folla di «ragazze della Fgci» degli anni 80, un pezzo di storia del Pci «una storia che nessuno ha mai scritto», dice, «e che va scritta, e può essere scritta solo dalle protagoniste». L’idea era venuta in una telefonata fra l’ex ministra Livia Turco e Simona Lembi, consigliera comunale di Bologna. La prima: «Ma davvero alla Festa nazionale del Pd non fate niente sul ruolo delle comuniste bolognesi? Nell’anno del centenario della scissione di Livorno? L’oblio sulla storia delle donne del Pci e sulle sue figure femminili è impressionante», aveva sbuffato l’ex ministra e presidente della Fondazione Nilde Iotti. Lembi è d’accordo: «Tutti sanno che Bologna è la città dei diritti, del Cassero (uno degli storici circoli per i diritti dei gay e dei trans, ndr). Ma nessuno si ricorda che Bologna è stata una capitale del femminismo, e la città delle donne comuniste». E così crea subito una chat. Che in poche ore esplode, oltre cento numeri, aria da rimpatriata di massa, di una generazione, appunto, quella delle comuniste bolognesi degli anni 80. Fissano una serata nella kermesse di Parco Nord, e che ieri si è chiusa. Così un mercoledì sera le «ragazze della Fgci» diventano un evento fuoriprogramma, letteralmente fuori dal programma della Festa nazionale del Pd, che pure ha previsto due dibattiti sul Pci nel centenario della scissione del 1921, con Aldo Tortorella, Pier Luigi Castagnetti, Ugo Sposetti.

Nel padiglione del Pd di Bologna, è lì che si danno appuntamento non ci sono abbastanza sedie, e così le signore procedono a un esproprio dal ristorante accanto. «C’è da scrivere una storia», annuncia Lembi, «sugli anni del passaggio fra l’uguaglianza e la differenza, quelli della prima festa nazionale delle donne nel 1982, quelli della prima convenzione di un comune con un luogo di donne (era il 1983, ndr), della Carta delle donne, della riflessione sui tempi di vita e i tempi di lavoro». C’è la grande mobilitazione per Chernobyl, l’inizio di uno scambio di esperienze con donne di mezzo mondo. Una storia in cui distinguere il femminismo dal resto, «perché il declino del movimento operaio, e il declino dei movimenti degli anni 80, non coincide con il declino di tutte le storie, anche se in quegli anni le donne parteciparono alla rete disarmista e alle mobilitazioni pacifiste», spiega Elda Guerra, pioniera dell’associazione Orlando e della Biblioteca delle donne, un’istituzione a Bologna, come anche lei, che in quegli anni è fra le prime femministe a capire la necessità della «durata» delle iniziative delle donne e la necessità di lasciare eredità a quelle che sarebbero venute dopo. Elda Guerra è una storica della Società Italiana delle Storiche, sta per pubblicare la biografia di Vittorina Dal Monte, una delle pioniere dell’emancipazione delle donne,  figlia di braccianti, partigiana, comunista femminista e sindacalista, a capo della lotta delle lavoranti a domicilio, e poi dirigente dell’Unione donne italiane.

Ma, avverte, non si tratterà solo di ricordare  le singole biografie, per quanto autorevoli. «Il modello bolognese è stato un modello di partecipazione», riflette Aureliana Alberici che non può essere presente ma manda una mail di adesione al progetto. «La nostra generazione politica ha fatto la scelta del femminismo e cioè della distruzione degli equilibri interni nel partito e con gli uomini» ricorda l’ex deputata Anna Carloni, che invece è arrivata da Napoli, è la compagna di Antonio Bassolino, «a metà anni 70 avviene il passaggio fra emancipazione e liberazione, il riconoscimento della differenza, un dibattito molto difficile innanzitutto fra le compagne. Lì il Pci inizio lo scollamento dai giovani, e poi con le donne. Uno scollamento che arriva fino ai nostri giorni».

Bologna, , con i suoi 100mila iscritti, era la più grande federazione comunista d’Italia. E c’erano amministrazioni innovative, con uomini che oggi definiremmo “open mind”, come il presidente della Regione Antonio La Forgia e il sindaco della città Renato Zangheri. Grazie a loro nasce infatti la prima convenzione con un’associazione femminista e pure separatista. Eppure “open mind” fino a un certo punto, puntualizza Raffaella Lamberti, altra presidente dell’associazione Orlando: ricorda che il comune era contrario alla legge sull’interruzione di gravidanza e non accettava che le donne coinvolte nell’amministrazione la pensassero diversamente. Lamberti però ricorda che fu cruciale trattare comunque con le istituzioni, anche se «le compagne del femminismo radicale ci chiamavano vendute». Ma è Isora Manfredi a far cascare il tendone per gli applausi: guadagna il microfono camminando con una stampella, è stata un’operaia della Ducati, è in pensione da 23 anni - e da 23 anni fa la volontaria, porta a casa la spesa agli anziani - ma era una capa della battaglia per tirare fuori il nido aziendale dalla fabbrica, «una questione di sicurezza, i bambini rischiavano come i lavoratori». Sindacalista tostissima, racconta dell’incontro con una giovanissima Luce Irigaray, filosofa, psicanalista, altra pioniera del pensiero delle donne. «Eravamo chiamate a negoziare i diritti delle donne, la parità partiva dritta ma arrivava sempre storta. Perché non c’è parità possibole fra dispari». Quante storie. «E l’Amedea  che preparava gli interventi nel fienile», «E c’era anche l’Edgarda». Prende la parola anche Silvia Bartolini, la prima a vincere le prime primarie, quelle di Bologna del 1999, stracciando gli sfidanti con il suo 80 per cento, la prima a consegnare le chiavi della città alla destra di Giorgio Guazzaloca. E Gianna Serra, sindaca  a San Giovanni in Persiceto – comune con una lunga tradizione di sindache – poi anche parlamentare. Lalla Golfarelli, ultima responsabile delle donne del Pci di Bologna. Anna Del Mugnaio, capa delle ragazze della Fgci e ricorda Giusy, la sorella, un’altra gigante, morta giovanissima in un incidente d’auto. Tante storie, il femminismo bolognese diventa un pilastro del movimento delle donne, dentro e fuori il partito. La Carta delle donne comuniste del resto era questo: un documento «itinerante», costruito da un gruppo, con storie diverse alle spalle. Solo alcune sono del Pci. In poche dopo ci resteranno. «Dalle donne la forza delle donne» è il sottotitolo. Da lì nasce la proposta di legge d’iniziativa popolare «Le donne cambiano i tempi», la battaglia per il riequilibrio della rappresentanza che portò in parlamento un piccolo esercito di signore, che diventarono il 30 per cento del gruppo comunista alla Camera. Poi ci sono quelle dei movimenti: c’è chi racconta di avere conservato volantini e documenti in attesa di questo momento. L’assemblea va avanti, nella grande sala dirimpetto nel frattempo si svolgono tre dibattiti uno dopo l’altro – uno è persino sulla legge Zan –   mentre le ex ragazze della Fgci ascoltano le loro storie fino a notte.  Ne esce un romanzo corale. Orale, per ora. Diventerà una storia vera, ricostruita per bene, giura Lembi, «saranno le storiche a raccogliere le testimonianze. L’importante è averle rintracciate e rimesse insieme».

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