L’ex deputato dem: «Eravamo disponibili a una mozione unitaria con la maggioranza. Critico Netanyahu ma questa è l’ora della difesa di Israele dai pogrom antisemiti»
Emanuele Fiano (ex deputato Pd, figlio di Nedo, ebreo deportato ad Auschwitz e unico superstite di tutta la sua famiglia, scomparso tre anni fa, ndr), perché non è stato possibile votare una mozione unitaria sulla strage del 7 ottobre in Israele, e una posizione unitaria del parlamento italiano?
Non sono in parlamento, posso solo dire che mi pare che dal Pd ci fosse tutta la disponibilità, e che il primo comunicato di Elly Schlein, la mattina di sabato, era perfetto.
La strage ha colto il mondo di sorpresa. Perché?
Solo chi ha chiuso gli occhi è rimasto sorpreso. La sorpresa è purtroppo la sconfitta della linea di difesa e di sicurezza israeliana al confine con Gaza. Ma che l’Iran finanzi Hezbollah e Hamas lo sa tutto il mondo. E anche che la situazione irrisolta palestinese sia esplosiva. Forse oggi il mondo ha aperto gli occhi sulla natura di Hamas.
La strage di ragazzi del rave party ha le stesse caratteristiche del Bataclan. Hamas appartiene alla famiglia del terrorismo islamista di Isis e al Qaeda, deriva da una radice dei Fratelli musulmani, quindi precedente alla nascita di Israele. E ha uno statuto, da anni mi sforzo di spiegarlo, che all’art. 7 parla di ebrei e non di israeliani. Nei filmati che Hamas ha diffuso, i miliziani che conducono il pogrom dentro un kibbuz urlano “yahud”: “ebreo”, non “israeliano”.
Per la Ue, Hamas è un gruppo terrorista.
Sì, è nella lista nera. Ma il flusso di denaro per Gaza che arriva a loro non si è mai interrotto. Sono giusti gli aiuti umanitari ai palestinesi per ospedali e scuole, ma gran parte di quei soldi è servita per costruire i tunnel per fare arrivare i terroristi in Israele o comprare le armi.
È giusto fermare questi aiuti?
È giusto che quei soldi siano usati solo per scopi umanitari. Non per armare un nemico mortale di Israele.
L’assedio totale, che colpisce i civili, annunciato dal governo israeliano, viola il diritto internazionale, lo dice l’Onu.
È una notizia dura, difficile da commentare. In Israele ho parenti e amici, vorrei che tutti sentissero le radio israeliane, vorrei si capisse che significa quando arriva l’ordine «chiudetevi nella stanza blindata».
Capisco l’appello di personalità amiche di Israele che dicono che non si può togliere l’acqua a Gaza. Serve una soluzione internazionale per salvaguardare le forniture essenziali per i civili palestinesi. Che però da sempre Hamas utilizza come scudi delle proprie infrastrutture militari.
“Due popoli due stati” è una formula dichiarata ma poco praticata, anche dai governi israeliani?
No. Nel 1988 a Ginevra Arafat ha annunciato all’Onu la rinuncia al terrorismo, da lì si sono sviluppati gli accordi di pace che prevedevano la restituzione dei territori in cambio di sicurezza per Israele. Poi Rabin è stato ucciso da un estremista della destra israeliana.
Peres, il suo numero due, ha indetto le elezioni. I palestinesi – non c’era Hamas – hanno fatto un mese di attentati kamikaze sanguinari, uno al giorno, sugli autobus di Tel Aviv, nelle discoteche, decine di civili israeliani sono stati uccisi. Peres ha perso le elezioni, ha vinto la destra. Nel 2000 hanno rivinto i laburisti, con Barak, che ha proposto ad Arafat, davanti a Clinton, la restituzione del 98 per cento dei territori occupati. Arafat è tornato in Palestina e ha fatto sapere che non era d’accordo. Da quel momento in poi è stato tutto in salita.
Nel 2005 il generale Sharon, il leader più rappresentativo della destra, ha completamente liberato Gaza. E più di recente il governo Ganz ha ripreso i colloqui con Abu Mazen. Quindi non è vero che non c’è mai stata la possibilità di “due popoli due stati”. Certo, la destra israeliana era contraria, ma bisogna raccontare com’è andata davvero. Io rimango di quest’idea. Ma oggi non è il momento per parlarne, oggi è il giorno della difesa dei cittadini israeliani.
Il quotidiano Haaretz dice che c’è un colpevole in questa storia, è Netanyahu.
Per la disfatta delle prime ore di Israele, certo. È probabile che per quello che è successo ci sarà un giudizio nei confronti del governo e del suo capo. Credo che covi contro di lui una rabbia molto forte, ma ora in 300mila si sono presentati al richiamo dei riservisti, Israele è impegnato per difendere sé stesso.
Il sottosegretario Fazzolari ha paragonato l’attacco di Hamas all’Olocausto. È così?
La storia non si ripete uguale. Ho molto ragionato sul tema della Shoah, ne ho anche scritto in un libro che sta per uscire. In generale sono contrario a questi paragoni. E non si usa il termine Olocausto, che significa sacrificio votivo, ma “Shoah”, la volontà di eliminare gli ebrei dalla faccia della terra.
Io ho usato il termine pogrom, che fa parte della storia dell’antisemitismo dell’Europa dell’est, per ricordare la caccia agli ebrei casa per casa. Sono contrario anche all’uso della parola Shoah per altre vicende storiche, ma Hamas si nutre di antisemitismo, e quello di sabato scorso è un episodio della millenaria storia dell’antisemitismo.
Anche Olp all’inizio prevedeva la cancellazione dello stato di Israele, ma nello statuto di Hamas c’è il termine “yahud”, che dice tutto. Migliaia di giovani occidentali manifestano in solidarietà con le donne iraniane per le terribili violenze contro di loro. Dietro Hamas e Hezbollah c’è quello stesso Iran, che nutre e foraggia quell’ideologia in quei territori. In Italia, anche a sinistra, spesso questo concetto non passa.
Non c’è dubbio. A sinistra succede anche che talvolta chi critica i governi israeliani viene accusato di antisemitismo.
Sono contrario a equiparare le critiche ai governi dello stato di Israele all’antisemitismo. Ma non individuare l’antisemitismo in Hamas è cecità o malafede. I governi di Tel Aviv possono essere criticati come qualsiasi altro governo del mondo, sempreché non si usino argomenti antisemiti. Se in questi mesi fossi in Israele, con la parte della mia famiglia che è lì, sarei sceso in piazza contro la riforma costituzionale di Netanyahu. Ma oggi difendo l’esistenza di Israele da chi vuole la sua cancellazione.
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