La fine della Seconda guerra mondiale alla cuspide dell’Adriatico, con il corollario di persecuzioni politiche che assurge a rilevanza nazionale ogni 10 febbraio, non rappresentò soltanto il momento più avanzato della riscossa nazionale jugoslava, ma anche l’inizio della “questione di Trieste”. La disputa territoriale tra Italia e Jugoslavia, che sarebbe durata, nella sua fase “calda”, fino al 1954, è una storia appassionante su cui di rado, negli ultimi anni, si è concentrata l’attenzione pubblica. Restituisce inoltre uno spaccato della Guerra fredda capace di restituire complessità a ricostruzioni spesso semplificate. 

Con l’ingresso delle truppe dell’Esercito popolare jugoslavo a Trieste gli angloamericani iniziarono consultazioni frenetiche su come porre rimedio a una situazione che altrimenti rischiava di porre un precedente per i sovietici in Austria e Germania. Alla fine fu il comandante supremo delle forze alleate del Mediterraneo, il generale inglese Harold Alexander a prendere in mano la situazione.

Tito e la linea Morgan

(Foto Ap)

Dopo 40 giorni di pressioni crescenti, tra il personale delle ambasciate occidentali a Belgrado che aveva iniziato a bruciare gli archivi e voci di un’imminente evacuazione della costa romagnola “per via della guerra con la Jugoslavia”, Tito cedette e acconsentì alla spartizione del territorio conteso, la Venezia Giulia, in corrispondenza della linea tracciata dal generale William Duthie Morgan su una mappa, e che da lui prese il nome.

Mentre sulle città evacuate dagli jugoslavi – compresa Pola - veniva estesa l’amministrazione militare angloamericana, l’Istria veniva governata, in teoria provvisoriamente, da un’amministrazione militare jugoslava. I mesi successivi videro i due contendenti Roma e Belgrado - con dietro a loro rispettivamente Londra e Washington e Mosca - impegnati in continue prove di forza, provocazioni, azioni di mobilitazione della popolazione sul territorio e trattative estenuanti.

Risolvere la faccenda chiamando direttamente in causa la popolazione coinvolta apparve subito fuori discussione. Gli altoatesini avrebbero chiesto lo stesso nel momento in cui la debolezza dell’Austria sembrava invece promettere una reintegrazione dell’Alto Adige in seno all’Italia in tempi rapidi, e infatti avvenne già nel settembre 1946. Arrivarono invece sul tavolo i pareri di esperti variamente politicizzati, come quelli che nella primavera del 1946 vennero inviati a sondare la situazione sul campo, da Fiume a Tarvisio, per poi proporre tante linee di confine quanti i paesi interessati: Stati Uniti, Regno Unito, Unione Sovietica e Francia.

Tutti volevano Trieste

Castello di Miramare a Triste/Foto Unsplash

Su Trieste, soprattutto, nessuno voleva mollare. Per questo il Trattato di pace tra l’Italia e i 21 paesi a cui aveva dichiarato guerra sancì, il 10 febbraio 1947, la creazione del Territorio libero di Trieste (TlT), uno stato indipendente provvisoriamente nelle due celebri zone, la zona A con Trieste e il circondario rimasta sotto il controllo del governo militare alleato, e la zona B, estesa da Capodistria a Cittanova d’Istria (Novigrad) ancora sotto l’amministrazione militare jugoslava.

Alla nomina del governatore, che avrebbe portato all’effettiva attivazione dello stato-cuscinetto, non si arrivò mai. La cortina di ferro era calata “da Stettino sul Baltico a Trieste sull’Adriatico” (cit. Winston Churchill) e per inglesi e americani era oggettivamente preferibile mantenere in vita la zona A e la nutrita truppa ivi stanziata nel caso di un colpo di mano comunista. 

L’Italia, intanto, aveva iniziato a riprendersi dall’isolamento internazionale in cui la disastrosa avventura del fascismo l’aveva precipitata. Roma era a sua volta una tessera importante nel mosaico della Guerra fredda, perché il Pci era il partito comunista più grosso dell’Europa occidentale. Per scongiurare l’evenienza che il paese ricadesse nell’orbita comunista dopo le decisive elezioni del 1948, le potenze occidentali fecero un regalo alla Democrazia cristiana, promettendo, con la nota tripartita, la restituzione sia della zona A che della zona B.

Un evento ancora più importante era però destinato a sconvolgere il mondo dopo poche settimane, così sorprendente che gli agenti della Cia, fondata da pochi mesi proprio per fronteggiare il dilagare del comunismo, lo appresero dai giornali. Il 28 giugno 1948 Tito venne ”scomunicato“ da Stalin e la Jugoslavia venne esclusa dal blocco comunista.

Il “terno al lotto” (l’espressione venne usata da un diplomatico italiano) che questo significava per l’occidente venne presto messo a frutto da Washington all’insegna dello slogan To keep Tito afloat (tenere Tito a galla), cioè sostenere la Jugoslavia politicamente e con aiuti economici e militari per metterla nella posizione di reggere alla pressione sovietica che si materializzò ben presto con minacciosi movimenti di truppe ai confini del paese. Tito e i suoi compagni dopo lo spaesamento iniziale si adattarono alla situazione, iniziando negli anni successivi a sviluppare le fondamenta di quel socialismo alternativo che chi ha qualche anno in più ricorderà come una via di mezzo tra i due blocchi.

A livello internazionale le vicende personali di Tito presero a intrecciarsi con le vicende della politica europea e del crescente prestigio riconosciuto alla Jugoslavia. Jovanka Broz, quarta compagna del dittatore jugoslavo e sua futura moglie, venne mandata a “scuola di buona maniere” all’ambasciata a Roma prima di fare il suo debutto come first lady in occasione della visita a Belgrado del segretario di stato inglese, Sir Robert Anthony Eden nel 1952. L’anno successivo Tito venne addirittura ricevuto a pranzo dalla Regina Elisabetta II in occasione di una visita di stato a Londra.

Il rapporto con l’Italia

(Quartiere Giuliano Dalmata a Roma/Foto LaPresse)

L’unico paese occidentale con cui i rapporti non erano migliorati dopo il 1948 era l’Italia, per via dell’irrisolta questione di Trieste che nel nuovo assetto istituzionale sembrava a molti un relitto anacronistico. La situazione rimase in stallo per anni, finché, l’impasse nella politica italiana dopo l’insuccesso di Alcide De Gasperi alle elezioni del 1953 portò alla formazione del governo Pella che, conscio del pericolo nel continuo rafforzarsi di Belgrado, fece concentrare delle truppe nei pressi del confine con un espediente, per evidenziare l’importanza del problema.

Fu il nuovo presidente americano generale Dwight D. Eisenhower ad affrontare la situazione annunciando, di concerto con gli inglesi, la cessazione del TlT attraverso la spartizione delle due zone tra Italia e Jugoslavia. Dopo lo sconcerto iniziale – che portò alla semi distruzione delle ambasciate occidentali a Belgrado e a gravi scontri a Trieste, dove molti non potevano rassegnarsi alla perdita della zona B – i vertici jugoslavi si convinsero dell’inevitabilità di un accordo, il memorandum di Londra, sottoscritto nella capitale inglese, il 5 ottobre 1954.

Risolto il problema di Trieste, già l’anno successivo l’accordo di Udine permise alla popolazione nell’area di frontiera di attraversare il confine senza passaporto, una misura pensata per agevolare gli scambi e i commerci, primo passo di un processo che fece nei decenni successivi di quello italo-jugoslavo uno dei confini più aperti d’Europa.

Lo studio dei rapporti italo-jugoslavi nel dopoguerra restituisce elementi che abbondano nell’attualità, tra truppe minacciose assembrate ai confini e complesse composizioni di instabili interessi internazionali. Nel 1954 Roma e Belgrado sono riuscite a guardare avanti. Sarebbe bello che all’interno della “più complessa vicenda del confine orientale”, evocata dalla legge 92 del 2004 che ha istituito il Giorno del ricordo, si dedicasse più spazio a questa vicenda, la storia di come la pesante eredità del passato – tra cui il fascismo e le foibe – è stata superata già quasi 70 anni fa nell'interesse della cooperazione e dello sviluppo.  

Federico Tenca Montini è autore della monografia La Jugoslavia e la questione di Trieste (il Mulino, 2020), successivamente tradotta in croato (Srednja Europa, 2021).
 

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