- Da quando nel 2004 al posto della leva obbligatoria è stata introdotta la figura del militare di professione solo 50mila giovani sono stati assunti in pianta stabile, uno su cinque tra quelli reclutati.
- Gli altri licenziati, professionisti chiamati per le missioni all’estero a 1.200 euro netti al mese, sono stati «congedati senza demerito» anche dopo 10 anni di servizio
- Intanto in parlamento si discute una riforma del sistema di reclutamento che rischia di peggiorare ulteriormente le condizioni dei giovani militari accentuando le forme di flessibilità.
«Congedato senza demerito». Con questa formula non proprio lusinghiera ogni anno le Forze armate italiane licenziano migliaia e migliaia di soldati dopo averli utilizzati fino a sei, sette e perfino dieci anni di fila, con una paga tra i 1.200 e i 1.400 euro netti al mese, come combattenti nelle missioni militari in ogni parte del mondo.
Il capogruppo Pd della commissione Difesa, Alberto Pagani, parlando in aula alla Camera, ha detto che da quando nel 2004 è stata sospesa la leva obbligatoria per far posto ai militari di professione, sono stati reclutati circa 250mila giovani, ma solo 50mila sono passati in servizio permanente effettivo (Spe), cioè sono stati assunti in pianta stabile dall’esercito, dalla marina o dall’aeronautica.
Gli altri 200mila, da precari di lungo corso, sono stati trasformati in disoccupati. Pochissimi di loro, abbandonata obtorto collo l’uniforme, sono riusciti a trovare un nuovo lavoro. In sostanza la promessa per cui «chi si arruola ha un futuro, con o senza uniforme» è stata tradita.
Il lavoro del soldato, un tempo approdo ambìto e sicuro per molti ragazzi, soprattutto del sud, con la riforma della leva è diventato tutt’altro, una sorta di silenzioso cataclisma sociale che ha lasciato il segno tra decine di migliaia di giovani e nelle loro famiglie.
Senza volerlo le forze armate italiane si sono trasformate nella più grande fabbrica di licenziati d’Italia nonostante su marina, aeronautica ed esercito piovano miliardi a profusione. Di recente il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini (Pd), ha previsto sette miliardi di euro di nuove spese per armamenti. Un record, la cifra più alta in assoluto negli ultimi vent’anni.
Riforme militari
Parlamento, stati maggiori, partiti, ognuno dal suo punto di vista e con la sua impostazione, ha messo in cantiere una serie di riforme dell’apparato militare. Tra qualche giorno sarà presentato un testo per modificare le norme sul reclutamento mentre nel frattempo il Senato ha approvato una legge grazie alla quale i sindacati potranno organizzarsi anche all’interno delle forze armate.
Come tutti i cambiamenti, però, non è detto che portino cose buone, soprattutto per chi sta in fondo alla scala militare. Le indiscrezioni che accompagnano la preparazione della riforma del reclutamento dicono che sta prevalendo l’impostazione che vorrebbe addirittura ancor più flessibilità nell’uso dei soldati. Tradotto: più precariato militare.
Mentre per quanto riguarda il sindacato, la sua costituzione è senz’altro un cambiamento di rilievo. Che risponde a una sentenza della Corte costituzionale, ma con due macroscopiche lacune.
La prima è che il testo finale approvato di recente dal Senato prefigura la costituzione di uno strano sindacato corporativo che non può avere alcun contatto con altre organizzazioni tipo Cgil, Cisl e Uil, e può discutere delle condizioni di lavoro e di vita dei militari a livello di base e intermedio di ogni singola sede, ma solo con i vertici militari e politici di Roma.
Il secondo difetto è che il sindacato per la sua stessa natura non potrà estendere le tutele e poi difenderle, almeno da un punto di vista formale, anche ai soldati precari che in quanto tali non sono coperti da un contratto. Il giovane militare, insomma, rischia di uscire da questa tornata di riforme più vulnerabile di prima.
La figura del soldato negli ultimi anni è completamente cambiata rispetto alla tradizione di età repubblicana post bellica. Quello che gli stati maggiori chiamano lo “strumento di difesa” era allora tutto concentrato sulla salvaguardia dei confini a nordest in previsione di un attacco di truppe del blocco sovietico verso la «soglia di Gorizia».
Ammassati ai confini c’erano i soldati di leva e in quelle zone era concentrata pure la maggior parte dei sistemi d’arma. Da allora il quadro strategico è completamente cambiato, la minaccia sovietica è scomparsa e più del numero di soldati oggi conta l’addestramento e l’armamento di ognuno di essi per le missioni estere.
Anche se le esigenze quantitative ovviamente rimangono, pure se in misura ridotta rispetto al passato, e infatti gli stati maggiori durante le audizioni in parlamento hanno rivendicato adeguamenti degli organici di tutte e tre le forze armate.
Soldato combat
Il soldato di oggi è “combat”, cioè deve essere operativo per le zone di guerra, in ognuna delle 31 missioni estere, dalle più piccole alle più grandi, nelle quali l’Italia è impegnata. Un soldato con questi requisiti non può essere anziano, 35 anni è il limite massimo.
Date queste premesse le forze armate ritengono necessario disporre di un numero di soldati sufficiente in quel range di età, anche se ai tempi della precedente riforma del reclutamento voluta nel 2012 dall’ammiraglio Giampaolo Di Paola, ministro della Difesa nel governo di Mario Monti, probabilmente non sono state calcolate bene le conseguenze.
Di sicuro oggi il soldato di professione nella maggior parte dei casi finisce senza colpa nel tritacarne del precariato e sono sostanzialmente fallite le iniziative collaterali che avrebbero dovuto mitigare il fenomeno dando sostegno ai congedati perché potessero trovare un nuovo lavoro.
Nel corso delle audizioni i parlamentari hanno sentito anche il direttore del ministero della Difesa che si occupa di questi aspetti, Giuseppe Quitadamo. La sua relazione risale a giugno 2019, ma la situazione da allora non è sostanzialmente cambiata. Quitadamo ha informato che «la percentuale media dei collocati rispetto alle adesioni si attesta tendenzialmente su una media dell’8 per cento», cioè un numero «decisamente insufficiente».
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