Il Pd deve proseguire sulla strada iniziata con le elezioni europee, con una qualità in più emersa in questo scontro, la mitezza che è l’opposto del cedimento. Oltre l’immagine di Meloni statista globale, c’è la realtà di un paese non incantato, semmai disincantato, ma neppure arreso, in attesa di una convinzione
Dopo giorni di devoti omaggi verso il “Giorgialand” allestito a Borgo Egnazia, il fantabosco della presidente del Consiglio, e di deferenti elogi di Elisabetta Belloni, nuova riserva della Repubblica, la stampa per definizione illuminata e intelligente troverà forse qualcosa da dire anche su quanto si agita nelle retrovie, al piano inferiore della Downton Abbey di palazzo Chigi, dove si muovono le pulsioni meno presentabili, ma forse le più autentiche.
I deputati dell’opposizione aggrediti nell’aula della Camera mentre sventolano il tricolore, l’inchiesta di Fanpage, trasmessa da Piazzapulita su La7, su Gioventù nazionale, i giovani meloniani, o lo stravolgimento della Costituzione che ci ostiniamo a chiamare premierato e autonomia.
Rimpiangere Andreatta
Di fronte a certe reazioni flebili, o a certe offerte di collaborazione con le riforme al buio, confesso che sto provando nostalgia per una figura come Beniamino Andreatta, un cattolico liberale, un uomo di governo, non era un esponente di sinistra, ma non avrebbe mai accettato di mettere sullo stesso piano aggressori e aggrediti, né di ridurre a folclore le braccia tese e il Sieg Heil che risuona nelle sedi e nelle manifestazioni dell'organizzazione giovanile del primo partito italiano.
Nel 1994 Andreatta era il capogruppo del Partito popolare alla Camera, il Ppi che aveva preso il posto della Dc si era tenuto fuori dalla coalizione progressista di Achille Occhetto, ma non era rimasto silente e equidistante rispetto all’ascesa di Silvio Berlusconi e dei suoi alleati. «Uno dei maggiori pericoli è la regressione ai sentimenti primordiali, alla rabbia. La videocrazia ha contratto nel gesto e nell'urlo il ragionamento della politica. È un’ottima tecnica, anche i piduisti urlano» (11 marzo 1994).
«In Francia la destra preferisce perdere le elezioni piuttosto che allearsi con Le Pen, da noi invece si è ramazzato di tutto nella destra, compresi i picchiatori inseriti nel governo» (14 maggio).
«Siamo turbati dall'imbarbarimento segnato da aggressività e insofferenza che contrastano con la nostra mitezza... La logica verso cui sembra muoversi la maggioranza è una prevaricazione sistematica, arrogante e mercantile» (20 maggio).
Consegnarsi al nemico
Notazioni attuali. Così parlava un autentico liberale e un erede della tradizione di De Gasperi. Dopo la sconfitta del 1994 il Ppi si spaccò in due, un pezzo scivolò verso Berlusconi e le destre, un altro (Marini, Bianco, Castagnetti, Rosy Bindi, Rosa Russo Iervolino, Sergio Mattarella, e naturalmente Andreatta) fondò l’Ulivo di Prodi con gli eredi del Pci.
Tra raffiche di espulsioni e un gran fragore di chiavistelli e di porte sbarrate, i due gruppi si contesero la storica sede di piazza del Gesù corridoio per corridoio. «Stavano cambiando le serrature, ma li abbiamo fermati», disse Rosy Bindi.
La scena in settimana si è ripetuta a Parigi: l’ex presidente ha chiuso con il lucchetto la sede dei Républicains mentre i notabili andavano a sbatterlo fuori dal partito dopo l’accordo con Marine Le Pen. Éric Ciotti altro non è che un petit Monsieur Buttiglione. Le due parti non erano equidistanti nel 1994 in Italia, come non lo sono oggi a Parigi.
Una si è consegnata al suo nemico mortale, la destra estrema, che la divorerà, come è avvenuto in Italia, fatta salva qualche carriera personale. L’altra prova a tenere viva la sua tradizione e a resistere. Anche quando gli elettori sono in gran parte andati via e i media stanno da un'altra parte.
Costruire l’alternativa
I moderati non ci sono più, dopo Berlusconi. Al loro posto c'è un’opinione pubblica pronta a digerire anche Le Pen e poi Trump, dopo aver minimizzato in Italia su Salvini e Meloni. Lo strabismo che porta a essere severi con le contraddizioni della sinistra e indulgenti con quelle della destra.
A condannare la radicalizzazione a sinistra e fingere che invece Vannacci sia un modello di equilibrio. Ma c’è anche un grande spazio di dibattito e di mobilitazione. Il no alla riforma del premierato e dell’autonomia è la prima occasione per costruire i successivi sì, i punti di una futura alternativa di governo, da mettere su da qui al 2027, ammesso che sia davvero questo l’anno del voto.
Per i reduci dal fallimento del terzo polo, i narcisi con lo specchio rotto, i fighetti ora un po’ sfigati, significa impegnarsi nello schieramento alternativo alla destra, senza ambiguità. Altrimenti è inutile tifare per Macron contro Le Pen o per Biden contro Trump, quando in casa si resta in mezzo.
Tanto vale consegnarsi direttamente a Meloni e Salvini: volevano essere Tony Blair, finiscono per essere Éric Ciotti. Per il partito perno della futura coalizione, il Pd, per la segretaria Elly Schlein significa proseguire sulla strada iniziata con le elezioni europee, con una qualità in più emersa in questo scontro, la mitezza che è l’opposto del cedimento. Oltre l’immagine di Meloni statista globale, c’è la realtà di un paese non incantato, semmai disincantato, ma neppure arreso, in attesa di una convinzione.
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