- Generazioni, generi, geografie. Tre pilastri per rendere l’Italia moderna, avanzata, meno diseguale.
- La piramide rovesciata sulle spalle dei giovani. Le donne pagate meno ed escluse, oltre il gender gap. Il sud, i piccoli comuni e le aree montane.
- Serve un intervento deciso delle forze progressiste, di centrosinistra, democratiche che vada nella direzione di quanto indicato nella seconda parte dell’articolo 3 della Costituzione.
“Tre G”. Tre volte la stessa lettera, per altrettante parole, tre concetti fondamentali per costruire un paese più giusto. Generazioni, generi, geografie. Tre pilastri per rendere l’Italia moderna, avanzata, meno diseguale. Sono proprio questi i tre vertici di un triangolo dell’ingiustizia che affligge e zavorra da decenni, e in forma sempre più aggressiva, la nostra società.
Generazioni significa guardare allo squilibrio tra coorti di età, con i giovani sempre meno numerosi, spesso esclusi dal mondo del lavoro, della vita sociale, marginalizzati economicamente e sfruttati, sì, pagati poco e tormentati da un futuro incerto. Se in passato i “giovani” rappresentavano metaforicamente e statisticamente la base della società, nel corso degli ultimi cinquant’anni, le persone comprese tra i 18-24 sono diminuite fino a contare per il 20 per cento circa (erano il 40 per cento nel 1951 e ancora il 35 per cento nel 1991).
La piramide rovesciata
La piramide si è rovesciata, con gli anziani più numerosi e i giovani, il vertice, che tengono in equilibrio l’intera struttura. I pochi giovani hanno meno anche in termini di risorse economiche. Mancanza di lavoro, di prospettive, chiusura di un sistema per nulla premiale, ma selettivo in base a origini familiari, scarsa o nulla mobilità sociale. Salari bassi, da precari, che inevitabilmente spingono molti a lasciare l’Italia, e quelli che non possono rimangono in una condizione di frustrazione e sfruttamento.
Li chiamano “generazione Z”, una intera comunità cui abbiamo rubato il futuro e cui neghiamo anche il diritto di indignarsi. Se disimpegnati allora sono ignavi, se attivi e critici allora considerati estremisti, se rifiutano un lavoro da schiavi qualche solone è pronto a etichettarli fannulloni. I giovani sono disoccupati per il 23 per cento, con quote quasi doppie nel Mezzogiorno, altro che ragazzi e ragazze senza voglia di fare. Quasi due milioni di persone, un triste primato in Europa. E si arriva a circa il 30 per cento considerando chi non «non studia, non lavora e non è incluso in altri percorsi formativi», i cosiddetti “neet”. Un’anonima sigla che nasconde però vite e sogni di ragazze e ragazzi.
Oltre il gender gap
Generi fa riferimento alla differenza tra “uomini e donne” che si declina in quasi tutti gli ambiti della società. Dalla differenza di salario, anche a parità di mansione, al tasso di disoccupazione (9.1 per cento donne contro 6,8), al tasso di inattività (43 contro 34), alla rappresentanza nelle professioni e nelle istituzioni, allo squilibrio in termini di posizioni apicali ricoperte.
E non basta, ovviamente, “essere donna, mamma e cristiana” e svolgere il ruolo di presidente del Consiglio per contribuire a ridurre queste distorsioni. Come la grave difficoltà, e talvolta l’impossibilità, di conciliare tempi di vita e di lavoro soprattutto in assenza di un sistema diffuso, capillare e strutturato, di servizi essenziali alla persona, a incominciare dalle scuole e soprattutto dagli asili nido.
Sud, piccoli comuni e aree montane
Geografie indica che l’Italia era e rimane profondamente diseguale. Regioni ricche, regioni povere. Territori che hanno economie simili a quelli delle principali aree d’Europa, e ampie fette di paese che invece occupano gli ultimi posti della classifica. Oltre al tremendo e doloroso divario nord-sud, esistono sacche di disuguaglianza anche all’intero delle due macro-zone. A soffrire sono i comuni di piccole dimensioni e pochi abitanti (quelli sotto i 5.000 sono il 75 per cento del totale) nonché le aree interne e quelle montane. Ovviamente in queste geografie le distorsioni crescono nel sud e nelle isole.
Il problema dell’Italia diseguale si ingigantisce allorché i vertici del triangolo delle “tre G” si fondono, si toccano o si avvicinano. Le persone che hanno una parte della loro vita ricadente in tutte le tre categorie non sono poche. Anzi, rappresentano un bacino fondamentale, ma sottorappresentato dalla politica, nella società. “Giovani donne meridionali”, un profilo che diventa la summa di tutte le ingiustizie, una violenza tremenda e sottaciuta, cui porre rimedio.
In assenza di politiche pubbliche, di politica di sinistra, le disuguaglianze sono destinate a crescere e a colpire proprio coloro che ricadono, senza averne colpa, nello spazio angusto delle “tre G”. Che mina la tenuta sociale ed economica dell’Italia, e aggredisce pericolosamente l’unità nazionale.
La prima parte dell’articolo 3 della Costituzione – «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» – rischia di divenire un enunciato vacuo.
Serve un intervento deciso delle forze progressiste, di centro-sinistra, democratiche che vada nella direzione di quanto indicato nella seconda parte del medesimo articolo, ossia di un’azione mirata, decisa, costante, coraggiosa e ambiziosa che riduca fortemente e sostanzialmente «gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana».
La tenaglia sociale
Le persone incluse nelle “tre G” rischiano di rimanere inesorabilmente indietro. Un dato su tutti: secondo l’Istat le giovani donne disoccupate tra i 15-29 anni sono il 24 per cento rispetto al 21 per cento degli uomini e la quota cresce fino al 33 per cento nel mezzogiorno. Il ritorno della “questione meridionale”, espunta dall’agenda grazie alla Lega nord e a tanti creduloni anche a sinistra. Dati consolidati, diffusi e oramai dannatamente strutturati che certificano che proprio di tutto c’è bisogno tranne che di una sedicente autonomia differenziata, una mascherata «secessione dei ricchi» per dirla con le parole di Gianfranco Viesti.
Il tasso di natalità è diminuito drammaticamente, quello di mortalità anche e nell’insieme la popolazione è invecchiata con grave rischio per la tenuta sociale, economica e delle casse della previdenza sociale. Il numero medio di componenti per famiglia è passato da quattro a poco più di due. Un cambiamento da governare se al crescente individualismo si somma la “solitudine” di infrastrutture, di welfare, accesso all’istruzione, scuole senza mensa… Servizi essenziali che in molte parti del paese sono un ostacolo sostanziale alla cittadinanza.
L’evasione fiscale, con la tassazione che tiene sempre meno conto del monito solidale della progressività, mette a repentaglio l’unità nazionale. Il reddito pro capite medio è significativamente e stabilmente inferiore nelle regioni del sud rispetto alle altre aree del paese, con una divaricazione crescente e mai arrestata sin dagli anni Ottanta, come certificano da lustri, tra gli altri, Svimez e Istat. Anche la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi è aumentata dagli anni Novanta, facendo dell’Italia uno dei casi più diseguali tra le grandi democrazie.
La destra-destra contro le povertà
Il governo di destra-destra guidato da Giorgia Meloni non è interessato a colmare le disuguaglianze tra gruppi sociali, ma preferisce che siano gestiti, governati tranquillamente dalla mano invisibile del mercato. Restano pertanto le distanze tra parti della società e in particolare tra i più abbienti e coloro che vivono nell’area delle “tre G”. Una zona che interessa milioni di persone, cui solo le forze di centro-sinistra possono rispondere. Tre parole, semplici, e fondamentali. Da cui ripartire: generazioni, generi, geografie. Tradotto per politiche attive: giovani, donne e sud.
© Riproduzione riservata