- Il governo Meloni ha approvato la legge di Bilancio di notte, il 21 novembre, e l’ha emendata di notte, il 21 dicembre, dopo sei giorni di rinvii dei lavori in commissione Bilancio.
- Giorgia Meloni è dovuta intervenire per bloccare lo scudo penale proposto dal viceministro alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto di Forza Italia, ma che ci aveva lavorato assieme al viceministro all’Economia, Maurizio Leo (FdI).
- È mancata una strategia complessiva esattamente come è mancata nel merito della legge di Bilancio. Il risultato è che anche dentro la maggioranza, capita l’antifona, ognuno è andato per sé confidando che la determinazione sulle singole misure avrebbe premiato.
Un caos del genere non si era mai visto. E non si tratta nemmeno più di problemi di rapporti tra alleati. Il governo Meloni ha approvato la legge di Bilancio di notte, il 21 novembre, e l’ha emendata di notte, il 21 dicembre, dopo sei giorni di rinvii dei lavori in commissione Bilancio, trascorsi tra continui annunci e smentite di modifiche, rimpalli tra una maggioranza, apparentemente molto solida nei numeri, che si è mostrata fragilissima e impreparata, al punto da essere costretta a comprimere ancora di più gli spazi di confronto parlamentari, già ristrettissimi, per evitare l’esercizio provvisorio. Il tutto per spartirsi poche centinaia di milioni.
Il bilancio del giorno dopo
Il bilancio del giorno dopo del capogruppo di Fratelli d’Italia, Tommaso Foti, sembra il racconto di un altro parlamento: «La commissione Bilancio ha svolto un ottimo lavoro. La maggioranza è stata compatta e, devo dire, l’opposizione non ha svolto ostruzionismo. Direi che rispetto alle precedenti edizioni, la legge di Bilancio è andata molto bene». I tempi? Sono stati rispettati. Il confronto? «È stato sereno».
Vengono accantonate in un solo colpo le scene che hanno segnato le ultime 48 ore, il Terzo polo che decide di abbandonare i lavori della Commissione perché semplicemente non stavano funzionando, l’opposizione unita che chiede il ritiro del condono penale riservato agli evasori e, ancora, le minacce dello stesso governo di portare il disegno di legge di Bilancio così come era in parlamento per il voto di fiducia.
Se c’è una cosa vera che ha detto Foti è che il problema è venuto più dalla maggioranza che dall’opposizione che pure aveva minacciato di ostruzionismo la manovra, seppellendola sotto migliaia di emendamenti.
Giorgia Meloni è dovuta intervenire per bloccare lo scudo penale proposto dal viceministro alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto di Forza Italia, ma che ci aveva lavorato assieme al viceministro all’Economia, Maurizio Leo (FdI). Ieri la tentazione di molti era quella di adossare ai forzisti le colpe e la narrazione facile sarebbe stata quella ricondurre i problemi della legge di Bilancio alle solite divisioni interne ai forzisti. Ben due ministri di Fratelli d’Italia, Nello Musumeci e Adolfo Urso, hanno dato la responsabilità della proposta al partito di Silvio Berlusconi, mentre i loro parlamentari si affrettavano a spiegare che tra FdI e FI non c’erano frizioni. La verità, però, è che le frizioni hanno percorso trasversalmente la coalizione, con mancanza di comunicazione anche tra i rappresentanti del governo e dei gruppi parlamentari dello stesso partito.
Il caso più clamoroso è stato quando, martedì pomeriggio, dopo che il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, aveva fatto capire di essere pronto ad andare in aula con la legge di Bilancio uscita dal Consiglio dei ministri, il suo stesso sottosegretario, Federico Freni, anche lui leghista, assicurava in commissione che il ministero avrebbe fatto quello che voleva il parlamento. Un cortocircuito, ma solo l’ultimo di questi giorni.
Pochi giorni prima una scena simile era successa in casa di Fratelli d’Italia con il responsabile cultura, Federico Mollicone, che annunciava la cancellazione della 18App, il bonus per i diciottenni, cogliendo in un primo momento impreparato il ministro Gennaro Sangiuliano.
La maggioranza non era riuscita a mettersi d’accordo sulla cabina di regia per coordinare gli emendamenti, lo stesso governo ha sforato il tetto di fondi che c’erano a disposizione per le modifiche alla manovra, tutte le regole con cui avevano immaginato di affrontare la legge di Bilancio sono saltate.
Gli interlocutori esterni
L’esecutivo ha dovuto far fronte nel frattempo a prevedibili richieste degli interlocutori esterni. Le norme sul Pos erano chiaramente indigeribili per la Commissione europea visti gli impegni presi di fronte ai nostri partner. E la saga del Pos è diventata un’enorme boomerang per FdI e compagni con i commercianti, che pure fanno parte della loro base elettorale, illusi e poi delusi.
La legge di Bilancio che arriva oggi alla Camera prevede solo una vaga formula: aprire un tavolo tra esercenti e fornitori dei servizi, banche e simili, per cercare un accordo sulle commissioni sulle transazioni elettroniche e, nel caso l’intesa non si trovasse, prevede un contributo pari al 50 per cento degli utili incamerati da quelle stesse commissioni.
Sul cuneo fiscale all’ultimo è stato fatto un piccolo correttivo aumentando fino a 25mila euro la soglia di reddito di chi ha diritto a un taglio dei contributi pari al tre per cento: un modo per venire incontro alle critiche dei sindacati meno arrabbiati, come la Cisl di Luigi Sbarra.
Ancora sul fronte cultura, e in particolare sui fondi che mancavano per l’indennità di discontinuità per i lavoratori dello spettacolo, il governo ha cercato di dare rassicurazione, modificando le norme in corsa e infine accordandosi anche con l’opposizione.
E in tutto questo affannarsi su fronti diversi, è mancata una strategia complessiva esattamente come è mancata nel merito della legge di Bilancio. Il risultato è che anche dentro la maggioranza, capita l’antifona, ognuno è andato per sé confidando che la determinazione sulle singole misure avrebbe premiato, all’interno di una cornice generale in cui non sono mai state chiare le priorità, al di là della prudenza sui conti e dei 21 miliardi stanziati contro il caro bollette. E soprattutto con così pochi fondi a disposizione.
In questo quadro persino le priorità dei partito hanno lasciato il passo alle richieste dei singoli o alla distribuzione di mance in più direzioni, tipica di ogni legge di Bilancio.
Berlusconi ha martellato sulla necessità di aumentare le pensioni minime e di aumentare la detassazione delle assunzioni per i giovani, è stato accontentato sulla seconda e solo per un anno sulla prima.
Il caso di scuola è stato quello dell’emendamento “salva calcio” di Claudio Lotito. Sia il ministero dell’Economia che palazzo Chigi avevano fatto sapere, fin dai primi giorni, di non ritenerlo accettabile. Ma passata l’ondata iniziale di polemiche e la successiva smentita, il senatore non ha mollato. E alla fine il suo emendamento, limato, trasformato ed esteso a tutte le società sportive, ha trovato spazio nella legge di Bilancio, smentendo un ministro dell’Economia debole, ma anche una presidente del Consiglio altrettanto assente.
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