Chiunque da bambino ha giocato almeno una volta al gioco delle sedie. Dove vince chi, quando la musica smette di suonare, riesce a piazzare il fondoschiena su una scranna prima degli altri. Chi resta in piedi viene eliminato. Ecco: il risiko delle nomine delle grandi aziende partecipate ci somiglia molto. Compresa la confusione, l’ansia e le risse finali che precedono il salto dei candidati sull’agognata poltrona di amministratore delegato, presidente o semplice consigliere.

Anche stavolta la tradizionale partita, con il governo di Giorgia Meloni che entro qualche settimana dovrà comporre le liste dei candidati delle più importanti aziende statali italiane, si è rinnovata. Con regole un po’ difformi dal solito. I pretendenti hanno infatti capito da tempo che la Meloni non sopporta (in questo è simile al suo predecessore Mario Draghi) eccessi di captatio benevolentiae, inchini strumentali e autocandidature: così i manager più intelligenti hanno preferito muoversi lavorando ai fianchi della nuova donna forte d’Italia, senza fare la fila davanti a palazzo Chigi come accadeva ai tempi degli esecutivi di Giuseppe Conte e Matteo Renzi.

A parte qualche eccezione l’incastro dei nomi che guideranno per i prossimi tre anni colossi dell’energia come Eni ed Enel, la big delle armi Leonardo, il gigante Poste, la banca Monte dei Paschi di Siena e società di peso come Terna ed Enav non è ancora chiuso. Ma il tempo stringe, e Meloni ha chiare due cose: il peso politico e strategico di scelte che verranno addossate a lei e solo a lei (gli ad di Enel, Eni e Leonardo hanno oggi più rilevanza di un ministro con portafoglio di fascia alta). E il pericolo che lei considera esiziale di aprire “tavoli” o “tavolini” con le altre forze della maggioranza, strumento abitualmente usato dai partiti per spartirsi società e consigli di amministrazione. «Meloni rifugge il manuale Cencelli: lei vuole premiare le competenze migliori e individuare le persone più adeguate, senza badare alle loro tendenze politiche» spiegano dal suo entourage.

L’intento finale della premier è quello di affrontare le richieste di Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, entrambi ridimensionati dopo elezioni politiche e regionali e affamati di posti, provando a respingere desiderata considerati a oggi inaccettabili. «Anche davanti a minacce di ripercussioni e sfaceli da parte dei nostri alleati Meloni non cambierà idea».

Si vedrà. A ora il piano di Meloni è questo: lei e i suoi uomini più fidati indicheranno quasi tutti gli amministratori delegati, mentre sarà lasciata mano più libera a Lega e Forza Italia sulle presidenze. I cda saranno invece divisi dai partiti con il classico sistema delle quote, tanto che le candidature da settimane vengono infilate nell’urna conservata gelosamente dal sottosegretario Giovanbattista Fazzolari. Dalle tre forze politiche della destra, ma anche del ministero del Tesoro che controlla le partecipate e che scremerà a breve i nomi delle tre società di head hunter chiamate da Giancarlo Giorgetti e dal nuovo direttore generale del Mef, Riccardo Barbieri.

I decisori

Ora, non è detto che lo schema Meloni passi. E Salvini, forte anche del risultato non negativo preso alle ultime regionali in Lombardia, spera di piegarla a più miti consigli costringendo la compagna di karaoke a dare alla Lega almeno un ad di fascia alta. Al netto delle tensioni in maggioranza, identiche a ogni giro di sedia, quello che oggi gli osservatori interessati temono di più (dal Quirinale a Confindustria, dai pochi poteri forti rimasti ai fondi stranieri che investono in Italia) è che la destra sbagli la selezione, cannando uomini e manager.

Il discrimine tra successo e fallimento sarà responsabilità dei pochissimi che incideranno sul dossier. Su tutti, la premier. Presuntuosa e autoritaria, secondo qualche ministro di FdI «eccessivamente sicura di sé in un campo di cui sa poco o nulla», nelle scelte ascolterà come sempre solo i fedelissimi, decidendo infine tutto da sola.

Qualche candidato ha avuto però una dritta sul un riflesso pavolviano che caratterizza la presidente del Consiglio: raccontare una cosa negativa di un possibile rivale ha un valore dieci volte più alto di una raccomandazione. «Più che caldeggiare persone, con Giorgia bisogna “zappettare” intorno agli altri candidati per farli cadere».

Non è un caso che ci sia una gara, tra le forze politiche ed economiche che portano candidati diversi, a far arrivare a Chigi dossier sui concorrenti, gossip maligni, particolari su procedimenti giudiziari veri o immaginari. Un metodo, per esempio, che ha portato di recente nei servizi segreti alla defenestrazione di Roberto Baldoni, fino a pochi giorni fa capo dell’agenzia per la cybersicurezza, e alla mancata conferma di altri vertici dei servizi, dirigenti silurati che potrebbero rientrare ora in qualche cda o nuove posizioni pubbliche.

Il cerchio magico

Meloni tratta la partita delle nomine con un cerchio magico. Dove conta moltissimo la sorella Arianna, non solo in quanto parente prossima ma come consigliera politica d’antan. Già in passato fautrice della candidatura di Enrico Michetti a sindaco di Roma, sostenitrice del ministro della Salute Orazio Schillaci, qualche mese fa Arianna ha salvato – secondo quanto scoperto da Domani – la candidatura di Francesco Rocca a presidente della regione Lazio, a un certo punto messa in bilico da una sfilza di indiscrezioni malevole arrivate a palazzo Chigi.

Notizie sulla presunta malagestione della Croce Rossa avevano convinto Meloni ad accantonare Rocca. Virtualmente azzoppato, il manager della sanità è rientrato in gioco quando – proprio attraverso Arianna – ha mandato alla premier il Nos (Nulla osta sicurezza) che aveva come presidente della Croce Rossa internazionale. Abilitazione che possono avere solo soggetti con il casellario giudiziario pulito: la mossa ha dimostrato l’infondatezza dei sospetti e lo ha rimesso in partita.

L’altra pretoriana di Meloni è Patrizia Scurti, da lustri segretaria particolare della leader. Già vice della segretaria di Gianfranco Fini, non ha però lo standing per occuparsi di nomine, né la velleità di determinarle nonostante qualcuno la descriva come una sorta di novella Rasputin.

«Patrizia segue Giorgia come un ombra, le cura meticolosamente l’agenda, ne difende strenuamente la privacy, ma nulla di più», dicono da Fratelli d’Italia. In tema di fiducia e privacy, non è un caso, forse, che proprio il marito di Scurti – risulta a chi scrive – sia stato chiamato a fare il capo scorta della presidente del Consiglio. «Nessuna raccomandazione di sorta da parte di nessuno» spiega una fonte vicino a Meloni. «Sono stati i vertici dell’Aisi a proporre quel nome, che come agente di polizia in servizio già era autista presso l’agenzia».

Se Scurti inciderà poco sulla scelta dei manager, molti danno credito al potere emergente del capo di gabinetto Gaetano Caputi. In realtà il magistrato ha avuto finora un campo d’azione assai più limitato rispetto a quello che fu del suo predecessore Antonio Funiciello, capace di suggerire scelte strategiche all’ex premier Mario Draghi (su tutte quella in Rai, dove sponsorizzò l’arrivo di Carlo Fuortes). Preparato e capace, carattere fumantino, Caputi è finora stato relegato dalla premier nell’angolo delle pure valutazioni giuridiche sui provvedimenti del governo: lontano per cultura ed estrazione dalla setta post missina che circonda Meloni, «parla una lingua che gli altri cortigiani non capiscono, e non si è ancora amalgamato del tutto all’ambiente di Chigi», dice chi lo stima da sempre.

Il principale spin doctor del gioco delle sedie è invece l’ex missino Gianbattista Fazzolari, oggi l’unico vero braccio destro e sinistro di Meloni. È il sottosegretario l’incaricato a raccogliere il curriculum di tutti i candidati, ed è lui a essere stato autorizzato a coordinare la partita delle partecipate con i maggiorenti di Lega e Forza Italia.

Teorico del blocco navale sui migranti, francofono antifrancese, colto ma considerato da molti «uomo dal pensiero indeformabile», Meloni lo considera il più affidabile tra i suoi affezionati. Gaffeur di razza (ha negato di aver proposto di introdurre poligoni a scuola come svelato dalla Stampa, ma sono in molti ad aver confermato a Domani la passione per le armi del Mr Wolf di Meloni; di recente ha fatto inorridire l’ambasciata americana spiegando che il suo governo non vuole dispiacere sull’Ucraina «l’omino della Cia»), Fazzolari è avulso dalle logiche di sistema, dai salotti romani e dai potentati economici di Milano, e divide ancora il mondo «tra chi è con noi e chi è contro di noi», tra «questo è nostro, e questo è vostro».

In assenza di una classe dirigente interna al partito e di pochi civil servant competenti “di area”, in tanti temono che la premier e Fazzolari nel momento finale della selezione guardino solo nel proprio asfittico giardino. «Devono invece aprirsi al mondo, evitare di apparire affamati, e scegliere quelli bravi. Per il governo le nomine saranno un momento spartiacque da questo punto di vista», dice chi osserva il gioco delle sedie al Quirinale, in un ufficio a due passi da quello di un osservatore assai interessato, cioè Sergio Mattarella.

I dubbi su Lollobrigida

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In realtà fosse confermata l’ipotesi meloniana di lasciare al suo posto l’ad di Eni Claudio Descalzi (supererebbe per longevità il mandato di Enrico Mattei) e Matteo Del Fante, il manager voluto da Matteo Renzi a Terna che ha poi rilanciato le Poste, la premier da un lato ammetterebbe di non avere nomi adeguati a sostituire manager scelti dall’opposizione. Ma dall’altro mostrerebbe saggezza. «Fazzolari, potesse agire in autonomia, prenderebbe tutto il prendibile», dicono i suoi antipatizzanti. «Anche a rischio di far saltare i delicati equilibri nella maggioranza e i rapporti con il deep state, emarginando mondi, poteri e civil servant che nel medio-lungo periodo possono fartela pagare cara».

L’altro dioscuro della Meloni dentro Fratelli d’Italia è Francesco Lollobrigida, cognato e marito della sorella Arianna, e ha invece un approccio meno ruvido del sottosegretario. Democristiano di indole, capo del partito e oggi ministro dell’Agricoltura, sono tanti i manager e i dirigenti in cerca di un posto al sole a presentare a Lollobrigida (e a Luca Sbardella, che cura le sue relazioni istituzionali a Roma) speranze e curriculum.

“Lollo” di recente ha piazzato a 85mila euro l’anno l’esperto di fund raising ed ex comandante della Gdf Alessio Marchi come capo della strategica Sin, srl pubblico-privata che gestisce il sistema informatico sul quale passano i miliardi dei fondi europei destinati alle aziende agricole italiane. Mentre nelle posizioni di vertice delle partecipate di stato sta pensando ad outsider come Maurizio Ferrante, manager poco conosciuto di Consip ma suo conoscente, che mira a un posto alle Poste. Lollobrigida non direbbe mai no nemmeno alle ambizioni segrete del più quotato Flavio Valeri, banchiere ex Deutsche Bank oggi presidente di Lazard Italia che – secondo alcune fonti non confermate – avrebbe incontrato Meloni in tempi non sospetti.

Qualcuno crede che il rapporto privilegiato con la società francese ne mini le chance di vincere il gioco della sedia (quella di Montepaschi?), ma l’ingegnere con l’Mba ad Harvard potrebbe essere una delle carte coperte del governo. Intanto, grazie ai rapporti eccellenti nei salotti che contano, un mese fa è riuscito a far pubblicare una sua lettera sul Corriere della Sera, seguita da un’intervista a Milano Finanza. Medesimo il tema trattato: l’importanza delle nostre grandi società pubbliche, «campioni nazionali» che lo stato deve sostenere e aiutare a diventare ancora più grandi e influenti «per le sfide del futuro».

Lollobrigida, nella partita delle nomine, avrà però meno voce in capitolo di quanto si creda. Le sorelle Meloni non hanno infatti apprezzato alcune decisioni del ministro in termini di scelte prese in solitaria e non concordate in famiglia. «Il rapporto (politico) si è raffreddato, e per questo Francesco non ha oggi la forza di determinare decisioni cruciali come faceva fino a pochissimo tempo fa», dice un senatore di Fratelli d’Italia.

Potere Mantovano

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Tra i decisori di Fratelli d’Italia, in posizione più defilata rispetto al cerchio magico della premier, c’è il ministro della Difesa Guido Crosetto (che proverà fino alla fine a far prevalere il suo candidato in Leonardo, ad ora Lorenzo Mariani) e il potente presidente del Senato Ignazio La Russa: se suo figlio Cochis e la sua ex segretaria sono stati assunti di recente alla Fondazione Milano-Cortina mentre la partner dello studio dell’altro figlio, Geronimo, tre giorni fa è diventata assessora alla Cultura in regione Lombardia, nella partita delle nomine La Russa appoggia solo un nome. Quello del suo vecchio amico Flavio Cattaneo, che vorrebbe ad di Enel o Poste.

Ma l’astro nascente è il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, che Meloni ha voluto – sorta di primus inter pares – pure segretario del Consiglio dei ministri. Mantovano ha la delega sui servizi segreti, ma metterà il becco su ogni nomina riguardante ruoli inerenti la sicurezza, le forze dell’ordine e la magistratura. Conversatore doc e ultracattolico (qualche tempo fa il cardinale Matteo Zuppi a un amico ha detto ironicamente che «Alfredo sembra più prete di quanto lo sia io») secondo qualche ministro «si sta allargando troppo». Sulle politiche antidroga, sui decreti Sicurezza e quelli contro le ong, per esempio. «Malintende il suo ruolo di coordinatore», dicono voci infastidite dal Viminale, dalla Difesa e dagli uffici di Carlo Nordio, capo del dicastero della Giustizia che ha scritto con Mantovano il famigerato decreto Rave.

Perfino il ministro dello Sport Andrea Abodi non ha visto di buon occhio la recente nomina di Ugo Taucer a consigliere politico di Mantovano, per 30mila euro l’anno: prefetto, Taucer è da anni procuratore generale dello Sport al Coni, e qualcuno crede che potrebbe essere anche lui a proporre nomi (in lizza ci sarebbe anche il figlio di Ciriaco De Mita, Giuseppe, che vanta un passato come direttore generale dell’Avellino) per la prestigiosa poltrona della spa Sport & Salute, dove l’uscente Vito Cozzoli sogna una difficile riconferma.

I segreti di Violante

Carattere diffidente e autoritario, oltre a Taucer Mantovano ascolta pochissime persone. Tra queste l’altro suo consigliere politico Alessandro Monteduro (che insieme al sottosegretario è stato animatore fino a pochi mesi fa della fondazione di diritto pontificio “Aiuto alla chiesa che soffre”, che si propone di sostenere i «fedeli cristiani ovunque siano perseguitati, oppressi o nel bisogno»). E “l’insospettabile” ex comunista Luciano Violante.

L’ex presidente della Camera ha in questa fase un ruolo simile a quello che Massimo D’Alema ha avuto nel Conte II: amico di Mantovano da quando quest’ultimo era sottosegretario all’Interno, è un sostenitore di Meloni, che consiglia in segreto e blandisce pubblicamente. «Altro che fascismo. Pinuccio Tatarella pensava a un partito conservatore moderno, ovvero quello che sta cercando di mettere in piedi oggi Giorgia Meloni», ha ribadito pochi giorni fa in un’intervista a Formiche.

Antesignano sostenitore della riconciliazione tra antifascisti ed eredi della Repubblica di Salò, Violante dal 2019 è presidente della fondazione “Civiltà delle Macchine” in pancia a Leonardo, dove fu chiamato dall’allora presidente del colosso pubblico Gianni De Gennaro. Se qualche settimana fa ha garantito a palazzo Chigi la serietà del suo amico Fabio Pinelli, membro del comitato scientifico della sua fondazione e ora vicepresidente del Csm, in questi giorni con Mantovano e lo stesso De Gennaro è uno degli sponsor principali del generale Andrea De Gennaro (fratello di, ma oggi comandante in seconda e ufficiale con maggiore anzianità tra i papabili) a nuovo comandante della Guardia di finanza.

«Tra gli “esterni” al cerchio magico e alla politica, i suggerimenti di Violante, insieme a quelli di Descalzi e degli amici di Coldiretti come Vincenzo Gesmundo ed Ettore Prandini, sono i più ascoltati da Meloni. Anche in chiave nomine», dicono fonti autorevoli a palazzo Chigi.

La partita della Lega

De Gennaro è persona capacissima, non avrà strada facile. Non solo perché non è impossibile che l’attuale numero uno Giuseppe Zafarana (stimato dal Quirinale) venga di nuovo riconfermato, ma perché il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti (che ha delega sulla Gdf) sta pensando anche ad altri nomi per la successione. In primis, a quello del generale Umberto Sirico.

Giorgetti è, fuori dal cerchio nero della Meloni, uno dei pochissimi che influirà sul gioco delle sedie. E, fosse ufficializzato un tavolo che Meloni non vuole, sarà uno dei quattro big a stilare profili e proposte. Insieme a Meloni, a Matteo Salvini per la Lega e ad Antonio Tajani per Forza Italia.

Giorgetti da capo del Mef è di fatto controllore delle partecipate, e Meloni spera di usarlo come contrappeso alle richieste del segretario della Lega. Non è scontato ci riesca: Salvini e Giorgetti ultimamente hanno trovato un equilibrio a due insperato. Il draghiano sta lavorando per trovare manager e dirigenti “nordisti” del mondo produttivo di riferimento da mettere nei cda, mentre il capitano – che spera ancora di poter intestarsi l’ad di una big come Leonardo – è ministro delle Infrastrutture e sa che potrà portare a casa non l’ad di Fs (Luigi Ferraris scade l’anno prossimo ed è saldo al comando) ma quello di Rfi, la società della rete ferroviaria che deve investire oltre 20 miliardi di fondi del Pnrr. Il leghista vorrebbe però mettere becco anche sui vertici di Trenitalia. «Questo non è possibile» dice un meloniano. «Se Lega prende Rfi, l’altra tocca a noi».

E Forza Italia? Il partito di Berlusconi è diviso e frastagliato. Sono in due a gestire la partita: il frontman Tajani (che qualche giorno fa è stato visto in un hotel a chiacchierare con Paolo Scaroni, che Berlusconi vuole spendere come presidente di Enel) e il solito Gianni Letta. Il vecchio braccio destro del Cavaliere è stato richiamato in servizio solo poche settimane fa, quando Licia Ronzulli ha litigato con Marta Fascina e ha perso molti dei suoi privilegi.

1 - continua

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