- Se Giorgia Meloni vuole creare un governo rispettabile, gradito alle alte gerarchie dalla repubblica e ai partner internazionali, non può rischiare di avere Salvini seduto al Viminale.
- Ma allo stesso tempo non può lasciare che il ministero dell’Interno sia occupato da un tecnico di provata fiducia: significherebbe scoprire il fianco a un alleato maestro di guerriglia e fuoco amico.
- La Lega ha una lunga storia di guerra ai governi di cui fa parte e un Salvini in difficoltà di consensi e in crisi nel suo stesso partito non avrebbe nulla da perdere a trasformare il ministro nel bersaglio prediletto dei suoi attacchi.
Giorgia Meloni vuole formare un governo assolutamente rispettabile e da ogni parte le arrivano segnali che mettere Matteo Salvini al ministero dell’Interno sarebbe una macchia imperdonabile.
Ma la leader di Fratelli d’Italia, che ieri si è riunita ad Arcore con i leader della coalizione di centrodestra, sa anche che senza Salvini al Viminale, o senza un altro leghista di sua assoluta fedeltà, si esporrà a un alleato formidabile nell’arte della guerriglia interna ai governi.
In crisi di voti e in difficoltà nel suo stesso partito, Salvini non avrebbe nulla da perdere nel trasformare il futuro ministro nel bersaglio principale dei suoi attacchi, logorando il governo da destra e, se necessario, portandolo a fondo con sé.
Vuote rassicurazioni
Per il momento, tutto sembra tranquillo tra gli alleati. Questa settimana, durante l’esecutivo nazionale di Fratelli d’Italia nella sede del partito in via della Scrofa, i luogotenenti di Meloni si sono alternati per rassicurare i giornalisti: non c’è alcun veto sul nome di Salvini, hanno spiegato.
Venerdì è stato il turno dei leghisti, che dopo una riunione a porte chiuse hanno confermato alle agenzie: «Non ci sono veti di alcun tipo su Matteo Salvini, il cui ottimo lavoro ai tempi del Viminale non è in discussione».
Parole praticamente identiche tra i due partiti che suonano particolarmente insincere: poco più che tentativi di mostrare un fronte unito ed evitare che la narrazione sulla formazione del governo sia dominata dalle divisioni e dai litigi del centrodestra.
Nemmeno la stampa amica sembra crederci e i giornali dipingono scenari semi apocalittici: un ministro dell’Interno sotto processo (il caso Open Arms è ancora aperto) e magari difeso dalla ministra della Giustizia, l’avvocata Giulia Bongiorno, che proprio Salvini vorrebbe come guardiasigili?
Sarebbe peggio dei peggiori momenti dei governi Berlusconi e Meloni, per quanto vittoriosa, non ha le stesse spalle politicamente larghe.
Senza contare che Meloni non può assolutamente mostrarsi debole e succube delle richieste leghiste. Ne va della sua immagine di leader trionfatrice.
Un’aura che, nella politica fluida degli ultimi anni, può produrre un rapido e vertiginoso aumento dei consensi nel breve termine (chiedere al Salvini post elezioni 2018) e che altrettanto rapidamente può evaporare quando intorno al leader vittorioso inizia ad aleggiare l’odore di debolezza (chiedere al Salvini post caduta del governo 2019).
Non ha un amico?
Sulla carta, l’alternativa ideale a Salvini sarebbe un rispettabile leghista di sua scelta, come l’ex segretario Nicola Molteni.
Ma il nome favorito da Meloni sembra essere quello di un semi tecnico, come il prefetto Matteo Piantedosi, che di Salvini è stato capo di gabinetto tra 2018 e 2019. Una figura apparentemente ideale per accontentare allo stesso tempo leghisti, il presidente Sergio Mattarella, gli alti mandarini di stato e i partner europei
Ma qui Meloni è di fronte a un bivio. Senza un leghista che abbia in tutto e per tutto i colori della Lega al Viminale, non c’è nulla che impedisca a Salvini di aprire un fronte interno al governo. È una strategia che la Lega applica con successo da ormai 25 anni.
Il fondatore del partito, Umberto Bossi, ne è stato l’assoluto maestro. Nel 1994 ha trasformato il percorso del primo governo Berlusconi in un’estenuante corsa ad ostacoli terminata con la caduta dell’esecutivo, per poi raccoglierne i benefici alle successive elezioni del 1996, quando è stato premiato con il miglior risultato elettorale della Lega prima del 2018.
Storia ripetuta nel 2011, con la sua opposizione alla riforma delle pensioni, seguita dall’astensione al voto sulla fiducia che ha fatto cadere l’ultimo governo guidato dal cavaliere.
Fuoco amico
Salvini non è da meno del suo predecessore, anche se per ora ha avuto meno fortuna. Basta guardare come si è comportato nell’ultimo anno e mezzo con la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, costantemente sotto attacco leghista, fosse per la gestione delle piazze no green pass o per quella dell’immigrazione.
Per mesi, la lotta interna contro Lamorgese è stato uno dei pochissimi modi con cui Salvini è riuscito a ricavarsi un po’ di visibilità nel grigiore a cui lo aveva costretto il sostegno al governo Draghi.
Con l’immigrazione scesa in fondo alle priorità degli italiani, la Lega non ne ha giovato particolarmente dal punto di vista elettorale. Ma l’esecutivo Draghi ne è uscito ammaccato e il logoramento di Salvini ha contribuito molto alla sua fine poco gloriosa.
Oggi Salvini ha probabilmente ancora meno da perdere. I voti della Lega sono tornati sotto ai migliori risultati raggiunti da Bossi.
Il partito è stufo e riottoso e chiede risultati sull’autonomia del nord che difficilmente il governo Meloni potrà dargli. Inoltre, con un inverno che si annuncia gelido nelle nostre case ma caldo nelle piazze, è facile immaginare che la gestione dell’ordine pubblico diverrà di nuovo un tema su cui sarà politicamente conveniente investire. Meloni farà bene a ricordarsene.
Con un tecnico affidabile all’Interno, il suo governo sarà di certo rispettabile. Potrebbe essere anche un governo molto breve.
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