Dopo due giorni di tensione, è arrivata la risacca dentro la Lega. Il consiglio federale convocato d’imperio da Matteo Salvini, con meno di 48 ore di anticipo, ha avuto l’esito atteso: tutti d’accordo dietro al capo. Compreso il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, che cancella così, come se niente fosse, le polemiche e lo scontro pubblico degli ultimi giorni. 

Del resto oltre ai due protagonisti della lotta interna, intorno al tavolo nella sala del gruppo a Montecitorio sedevano i vicesegretari Andrea Crippa e Lorenzo Fontana, i governatori Massimiliano Fedriga, Attilio Fontana, Christian Solinas, Donatella Tesei e Luca Zaia, i capigruppo di Camera e Senato, Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo, e i commissari regionali. Sostanzialmente una galassia a maggioranza salviniana, che per ragioni differenti sa di non poter fare a meno del segretario, almeno dal punto di vista elettorale.

«Ascolto tutti e decido, come sono solito fare», è stato l’insolitamente laconico commento di Salvini prima di entrare in riunione. Enfasi sul verbo declinato al singolare: a decidere la linea, alla fine, è sempre e solo il segretario e il consiglio federale serve proprio a ribadire questo.
 

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Formalmente, tuttavia, il senso della riunione non era quella di affrontare di petto la diversità di vedute tra il sovranista Salvini e il governista Giorgetti, ma di ricompattare la linea per una «più incisiva azione di governo», sintetizza uno dei partecipanti alla riunione. Le priorità le elenca lo stesso Salvini in un intervento durato più di 50 minuti e sono «quanto e come tagliare le tasse» e «difendere il lavoro», oltre che rivedere il reddito di cittadinanza. Velocemente, anche ratificare la scelta del segretario di avvicinare la Lega a un nuovo gruppo europeo sovranista. Le conclusioni le aveva anticipate lo stesso leader prima di iniziare: «La mia impressione è che il consiglio federale approverà all’unanimità le posizioni presenti e future della Lega, che in Italia e in Europa sono e saranno alternative alla sinistra». Un ritorno ai fondamentali del rito leghista.

Nessuno si aspettava qualcosa di diverso dal consiglio federale, ma una malcelata curiosità riguarda invece quella che è stata annunciata come una assemblea generale da tenersi tra l’11 e il 12 dicembre. Non si sa se sarà un’anticipazione del congresso oppure una semplice prova di forza per ricompattare il gruppo anche in vista dell’elezione del capo dello stato. I contorni, però, sono importanti, anche perché sarà un evento che sposterà definitivamente su Roma il baricentro del partito.

Al netto dell’unanimismo di facciata, tuttavia, al consiglio federale si sono visti pochi sorrisi. Tutti i partecipanti hanno osservato scrupolosamente la linea del silenzio prima di entrare in riunione, come anche si erano tenuti lontani dai giornalisti nei giorni scorsi, per non entrare nel perimetro dello scontro tra i due big del partito.

I convitati

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Scontro che non è l’unico dentro la Lega. Intorno al tavolo di Montecitorio, infatti, non c’era un gruppo dirigente compatto, ma un insieme di compagni di partito divisi da antipatie e sospetti reciproci. Il che, ovviamente, rende ancora più forte la posizione del segretario.

I governatori del nord Fedriga, Fontana e soprattutto Luca Zaia guardano con apprensione alle polemiche interne per ragioni territoriali: tutti moderati e con un occhio pragmatico ai fondi del Recovery e alla ripartenza dell’economia, apprezzano silenziosamente l’operato del governo. Certo non possono sbandierarlo, ma hanno un territorio a cui rispondere e che mal sopporterebbe sussulti politici. Questo li avvicinerebbe a Giorgetti, ma in realtà l’unico tratto comune è il gradimento per la stabilità garantita da Mario Draghi. Sul piano politico, le loro traiettorie non incrociano quella del ministro. Sanno quanto ancora sia forte la presa salviniana sull’elettorato leghista, soprattutto in mancanza di un astro nascente credibile. Per questo nessuno si azzarda a ipotizzare qualcosa di diverso dalla Lega monolitica dietro al Capitano, anche a costo di ignorare le tensioni interne.

Proprio questa tendenza leghista a ricompattarsi intorno al capo al grido di uno slogan d’appeal come «tagliamo le tasse» è ben nota a Giorgetti. Il ministro conosce bene Salvini e ha accettato di rimettersi in fila dietro di lui, lasciando diligentemente il consiglio dei ministri per andare alla riunione federale.

È un dazio che è disposto a pagare: chi lo conosce ribadisce che il suo obiettivo non è quello di spodestare Salvini ma di farlo ragionare sull’opportunità di una strada diversa, più «europeista» appunto. Però è disposto a farsi richiamare all’ordine nella gerarchia di partito, se questo serve a tranquillizzare il leader a cui nel suo intervento ha ribadito la sua «totale fiducia». Quello che non è disposto a fare, invece, sarebbe indietreggiare rispetto alla posizione che – forse un po’ ruvidamente – ha consegnato all’intervista di Bruno Vespa. Giorgetti è convinto che la Lega debba «istituzionalizzarsi» per contare e che questa sia l’unica strada perché il prossimo governo politico sia sostenuto da una maggioranza di centrodestra. Altrimenti il rischio flop sul modello delle amministrative rischia di essere dietro l’angolo.

Ci sarà tempo, però, per convincere anche il Capitano.

Per ora, invece, l’abbraccio riconciliatorio finale è l’esito scontato. Come anche il rilancio sulla politica nazionale del taglio delle tasse, che unisce i dirigenti leghisti più di ogni dibattito sulla collocazione europea del gruppo. La dimostrazione di forza di Salvini è riuscita, ma non è su questo piano che si colloca la sfida che gli propone Giorgetti.

 

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