L’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è morto oggi a 98 anni, dopo che le sue condizioni di salute si erano aggravate negli ultimi giorni. La tentazione di dire che con lui se ne va l’ultimo prestigioso comunista italiano vivente è forte, dopo la morte del suo carissimo Emanuele Macaluso, compagno di una vita di battaglie. È durata un secolo a cavallo di due secoli, la vita di Napolitano, che era nato a Napoli nel 1925 da un padre, Giovanni, avvocato liberale di finissima cultura e Carolina Bobbio, figlia di nobili napoletani di origine piemontese. È stato deputato, senatore, presidente della camera, ministro, eurodeputato e due volte capo dello stato. 

Un destino incrociato, quello dei due amici di origine sociale così diversa. Macaluso è siciliano, per aiutare la famiglia non può studiare – è perito industriale – ma diventa un dirigente, un giornalista, un intellettuale nella militanza di partito e nel sindacato. Napolitano è aristocratico, colto di famiglia, anglofilo.

Sono diversissimi anche nel temperamento, sanguigno uno, imperturbabile l’altro. Ma entrambi sono monumenti alla loro cultura politica, che fu quella di Paolo Bufalini, Luciano Lama, Gerardo Chiaromonte e Nilde Iotti, e che venne definita dalla sinistra ingraiana con una venatura di disprezzo «migliorista», e «la destra Pci» perché ispirata a un miglioramento delle condizioni della classe operaia sui valori del socialismo democratico e antifascista del partigiano Giorgio Amendola, in un partito che usava con disprezzo la parola «socialdemocratico» come un sinonimo di menscevico.

Gli ultimi comunisti

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Dopo la morte di Amendola, Napolitano è il capo indiscusso della corrente. Destini incrociati, i loro, forse anche nella morte: Macaluso se n’è andato nel gennaio del 2021 a cent’anni quasi esatti dalla nascita del suo Pci, Napolitano se n’è andato poco più di cent’anni dopo la nascita di Enrico Berlinguer

Entrambe sono biografie di comunisti che volevano evolvere in socialista il loro partito, forse salvandolo. L’occasione mancata fu la fine del Pci, dopo la caduta del Muro di Berlino. Nel centenario della nascita del Pci, due anni fa, tutta la vecchia guardia ha ammesso che Macaluso e Napolitano avevano visto bene e avevano visto lungo.

Ma la battaglia fu persa, non solo per responsabilità della loro corrente minoritaria e neanche per solo per colpa del Pci. Di fatto storia di quel partito è andata da tutt’altra parte. Forse spingendo da tutt’altra parte anche la storia del paese.

My favourite communist

In realtà però è più corretto dire che se ne va non l’ultimo, ma il “primo” comunista. Il primo a ricevere un visto per volare negli Usa nel 1978, dove va a «spiegare il Pci agli americani», come poi raccontò su Rinascita («Il Pci spiegato agli americani: le conferenze a Harward, Princeton e Yale, le domande degli studenti sulla politica italiana, l’incontro con economisti come Tobin, Modigliani e Samuelson»); in pieno sequestro Moro.

Fu più tardi Giulio Andreotti a rivelare di aver favorito quel viaggio per ragioni di stato: «Napolitano potè spiegare agli americani l’evoluzione del Pci e il senso della politica che il suo partito perseguiva in quegli anni». Napolitano in quell’occasione spiega a chi considera il comunismo italiano ancora un’appendice di Mosca, che «il Pci non si opponeva più alla Nato come negli anni Sessanta». Sono le basi del compromesso storico. 

Nella famosa intervista rilasciata a Giampaolo Pansa del Corriere della Sera pochi giorni prima delle elezioni del giugno 1976, Enrico Berlinguer aveva già impresso quella svolta, anche se in termini diversi: «Io voglio che l’Italia non esca dal Patto Atlantico» aveva detto il segretario, «non solo perché la nostra uscita sconvolgerebbe l’equilibrio internazionale. Mi sento più sicuro stando di qua», sapendo che se «all’Est, forse, vorrebbero che noi costruissimo il socialismo come piace a loro», d’altro canto in Occidente «alcuni non vorrebbero neppure lasciarci cominciare a farlo, anche nella libertà». Napolitano invece scavalca l’Atlantico per esprimere una linea di «piena e leale» solidarietà agli Stati Uniti e alla Nato; quella che con malizia portò poi Henry Kissinger a dichiarare che Napolitano era «my favourite communist», «il suo comunista preferito».

La questione morale

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Napolitano è anche il primo comunista a pensare di dimettersi per dissenso con il suo austero e carismatico segretario sassarese, che era stato preferito a lui come successore di Luigi Longo. Ma non era una questione personale, era tutta politica, in un partito-chiesa in cui non era neanche immaginabile un gesto di rottura dall’interno (quelli del gruppo del manifesto erano stati radiati nel 1969 con l’accusa di filomaoismo). Siamo nel 1981.

Berlinguer ha rilasciato a Eugenio Scalfari la famosa intervista sulla questione morale. Uno schiaffo in piena faccia per la corrente dei miglioristi che si batte per costruire un rapporto positivo con il Psi di Craxi.

«Eravamo entrambi sbigottiti – ricorda lo stesso Napolitano – perché in quella clamorosa esternazione di Berlinguer coglievamo un’esasperazione pericolosa come non mai, una sorta di rinuncia a fare politica visto che non riconoscevamo più alcun interlocutore valido e negavamo che gli altri partiti, ridotti a “macchine di potere e di clientela”, esprimessero posizioni e programmi con cui potessimo e dovessimo confrontarci».

Dopo un mese Napolitano, in occasione dell’anniversario della morte di Togliatti, esprime il suo dissenso sull’Unità: attraverso il Migliore contro la linea del segretario. Un gesto fortissimo. 

I socialisti avviati al governo con la Dc, per bocca di Claudio Martelli, sono sprezzanti. A settembre, in una riunione di direzione, i berlingueriani accusano Napolitano, lo racconta lui stesso, di aver favorito gli attacchi contro il segretario e di aver nobilitato «il riformismo del Psi» in marcia verso palazzo Chigi, senza e contro i comunisti.

Un errore politico

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L’articolo sull’Unità, dice Adalberto Minucci, è «un errore politico», bisogna «evitare che in un momento di crisi acuta le opinioni, lecite, di un dirigente possano essere usate come momento di contrapposizione». L’episodio è citato in molti saggi. Vi si sofferma Giampiero Cazzato in «Il custode» (Castelvecchi, 2011), che racconta di un Pci capace di ricomporre i dissensi: di lì a poco Napolitano diventa capogruppo del gruppo comunista a Montecitorio.

Ma le distanze riesplodono poco dopo con la riforma della scala mobile. È Macaluso a ricordarlo, nel 2005 sul quotidiano Il Riformista. Napolitano «con Formica, capogruppo dei socialisti, aveva trovato un’intesa per rendere il testo accettabile anche per i comunisti. Intesa che poi venne mandata all’aria da entrambe le parti. Ma in quel momento Berlinguer comincia a vedere di cattivo occhio sia Napolitano sia Nilde Iotti, allora presidente della Camera.

A Nilde Iotti sembra rimproverare di tutelare più il governo che il suo partito, mentre su Napolitano pesa il sospetto di morbidezza per via della sua nota contrarietà alla linea scelta in quella fase dal Pci, durante la dura battaglia parlamentare che precedette il referendum. Da lì in avanti i rapporti si inasprirono a tal punto che quando Berlinguer morì (7 giugno 1984, ndr) Napolitano aveva già in tasca la lettera di dimissioni da capogruppo». Una lettera che però non fu mai consegnata. 

Ministro e presidente

E ancora è il primo (ormai ex) comunista a ricoprire la carica di ministro dell’interno, nel 1996, posto cruciale che solo grazie allo sdoganamento atlantista poté ricoprire. È Romano Prodi a sceglierlo.

E ancora e soprattutto, dieci anni dopo, Napolitano è il primo comunista a diventare presidente della Repubblica, e sette anni dopo il primo a essere rieletto al Colle. Gestisce la crisi del governo Prodi, nel 2007, e il ritorno di Silvio Berlusconi a palazzo Chigi. In una legislatura segnata dalla crisi economica, dagli avvisi dell’Europa al governo. E dalla crisi interna della maggioranza di centrodestra, con la scissione di Gianfranco Fini

Uno degli episodi più contestati accade nella fine del 2010. Fini ha presentato una mozione di sfiducia, Berlusconi non ha più i voti per andare avanti ma il voto viene calendarizzata a fine anno, quando il Cavaliere ha avuto il tempo di riacquistare – in una maniera che poi sarà oggetto di indagini e condanne – i consensi. Secondo i detrattori è proprio il Colle a chiedere il rallentamento di quel voto e a dare la possibilità al governo di navigare ancora. 

Chi lavorava al suo fianco nega con forza. «L’esigenza di approvare in Parlamento le leggi di stabilità e di bilancio, dandole la precedenza sulla discussione di una mozione di sfiducia al governo Berlusconi, derivava da una necessità oggettiva, di fronte alla difficile situazione finanziaria internazionale, e si muoveva nel solco di una decisione simile presa alla fine del 1994 dal presidente Scalfaro», racconta Giovanni Matteoli, il dirigente e amico di una vita che poi diventerà suo segretario.

«Del resto, sull'importanza di dare un segnale di continuità e di rigore approvando nei tempi stabiliti le leggi di stabilità e di bilancio per il 2011 tutti allora convennero», «Quel che accadde poi, con la ricerca affannosa in Parlamento di voti favorevoli al governo – la cosiddetta "campagna acquisti"- fu un ulteriore segno della crisi delle forze politiche, dell'indebolimento del ruolo del Parlamento e della pochezza delle classi dirigenti».

Il vero segretario

Chi la pensa diversamente è convinto che se si fosse andati subito al voto il centrosinistra guidato da Pier Luigi Bersani avrebbe potuto vincere. Certo Bersani non chiede il voto, perché «al Colle c’è il vero segretario del Pd», dicono le voci di palazzo.

Altra tesi contestata dai “napolitanos”: «Ricordo, e sarebbe difficile scordare, che la coalizione che si opponeva alle destre e al populismo era una riassunta nella famosa foto di Vasto, il Pd, Sel, e Italia viva», racconta Umberto Ranieri, «Ma era coalizione striminzita che non sarebbe stata in grado né di sconfiggere la destra né di fronteggiare il populismo. Il risultato che arrivò nel 2013 lo dimostra. Perdemmo milioni di voti. La strategia politica del Pd si risolveva nella ricostituzione di uno schieramento di sinistra ristretta, i risultati parlano chiaro. E intanto però è chiaro che il governo Monti era inevitabile, le sue misure furono difficili ma indispensabili per evitare il tracollo. Il Pd pagò un prezzo certo».

Per Ranieri il “dirigismo” di Napolitano è un mito: «Napolitano è stato un impeccabile presidente della Repubblica, rispettoso e difensore sempre della Costituzione . È stato al Quirinale in anni molto difficili, quelli della crisi economica. Grazie alla sua determinazione aprì una prospettiva di salvezza per il paese. Fu evitato il rischio del tracollo, in una situazione di crisi dei partiti, e di debolezza del governo».

E anche Pasquale Cascella, all’epoca era il suo portavoce, contesta la tesi di un Napolitano interventista: «Ha messo sempre davanti a tutto il senso delle istituzioni, è stato un uomo delle istituzioni, e però un politico. L'esplosione della crisi del sistema politico portò a a dilatare i poteri del  presidente a fisarmonica», la definizione è di Giuliano Amato, ma è di molto precedente a questi tempi difficili.

Re Giorgio

Un anno dopo le cose vanno diversamente. Il 5 agosto arriva la famosa lettera della Banca comune europea a firma del presidente uscente Claude Trichet e da quello designato Mario Draghi. A novembre Berlusconi prende atto di non avere più una maggioranza parlamentare alla camera. I titoli di stato sono sotto una serie di attacchi speculativi. 

Napolitano si accorda con Berlusconi: approvata la finanziaria il premier si dimetterà. Così avviene. Napolitano intanto ha nominato Monti senatore a vita. Subito dopo l’approvazione della legge di Bilancio viene chiamato a palazzo Chigi. Ed è per questa mossa che “salva” l’Italia – secondo alcuni, la rovina secondo altri – che il New York Times definisce Napolitano «Re Giorgio», per la sua volitiva scelta di andare oltre le prerogative presidenziali e dirigere dal Quirinale la scelta.

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L’arrivo dei grillini

Da qui in avanti la sinistra si divide sul giudizio sul capo dello stato. Di certo la mossa Monti gonfia i consenso dei Cinque stelle. Nel maggio del 2012 alle amministrative i grillini fanno un salto di qualità, sono 250 gli eletti.

Napolitano commenta con distacco «dalle elezioni escono motivi di riflessione per le forze politiche e per i cittadini sul rapporto con la politica e sui problemi di governabilità oggi a livello locale». Ma a domanda dei cronisti sul «boom» della nuova forza politica, è lapidario: «Di boom ricordo quello degli anni Sessanta, altri non ne vedo».

Alle elezioni politiche del 2013 non sarà possibile non vedere il «boom», M5S arriva al 25 per cento. «Napolitano non li sottovalutava», spiega oggi Cascella, «e più che preoccupato del boom dei Cinque stelle era preoccupato del fatto che si chiamassero fuori dal sistema, e che la politica non cercasse in qualche modo di far valere la propria ragione d'essere rispetto alle spinte populiste».

La cena

I grillini non lo voteranno alla sua rielezione, nel 2013, dopo la bocciatura clamorosa di Romano Prodi e Franco Marini dalle stesse file della coalizione, due candidature dal senso opposto entrambe firmate da Bersani che ha guidato l’alleanza Italia bene comune alla «non vittoria». Neanche la Sel di Nichi Vendola vota Napolitano. «Sono Stato», è il titolo di prima del manifesto. 

Nasce il governo le larghe intese guidate da Enrico Letta. «La rielezione sbloccò la situazione, consentendo la nascita di un governo di larga coalizione e l'avvio delle riforme costituzionali», ricorda Matteoli, «ma poi la sentenza di condanna definitiva di Berlusconi e le lotte dentro la maggioranza e il Pd si scaricarono sull’azione del governo e del Parlamento vanificando gli impegni presi».

Berlusconi, in forza delle sentenze, decade da senatore, la destra si riunisce davanti a palazzo Grazioli gridando al «colpo di stato».  Napolitano viene indicato come il regista della caduta del Cavaliere per via giudiziaria da una destra ormai in confusione. Il governo di Letta sopravvive pochi mesi.

Presto il presidente del consiglio deve cedere all’assalto politico dell’astro nascente, il nuovo segretario del Pd Matteo Renzi. Il Colle non benedice volentieri quell’operazione. Ma Renzi, in una cena al Quirinale in cui si autoinvita, mette l’anziano capo dello stato di fronte all’evidenza dei numeri che stanno dalla sua parte. 

Le dimissioni

Napolitano si dimetterà allo scoccare del secondo anno del suo secondo mandato. Un mandato accettato perché la richiesta era stata avanzata da quasi tutti i partiti, cui si aggiunse l'appello dei Presidenti delle Regioni. Il paese era senza un governo e con un parlamento profondamente diviso, un alto livello dello spread e una procedura d'infrazione europea sui conti pubblici.

Da lì fa una vita ritirata. Ma vigile e consapevole, quasi fino all’ultimo. A gennaio scorso ha risposto a Sergio Mattarella, che lo ha chiamato dal Colle per le consultazioni delle imminenti elezioni; finirà con un reincarico, e il precedente è proprio quello di Napolitano.

Una biografia collettiva

La sua lunga vita contiene anche molto altro. Anche la storia di un comunista che, con i suoi compagni, diventa europeista, come ha raccontato poi nella sua autobiografia politica. «Dal PCI al socialismo europeo» (Laterza, 2005) accogliendo la trasformazione della sua cultura politica con un «grave tormento autocritico», partita dall’adesione «acritica alle posizioni negative verso l’integrazione europea», anzi «la ripulsa», «la drastica pregiudiziale», dominata dalla scelta di campo fra Usa e Urss. 

«L’errore maggiore», poi lo definì. Il cambio di segno avvenne negli anni 60, «con il determinante concorso» dell’eurocomunismo di Berlinguer. Sulla lezione di Altiero Spinelli medita in profondità: «La sua resta una grande lezione di metodo: non chiudere le proprie analisi in alcuno schema, confrontarsi creativamente con la realtà nella sua evoluzione, ispirarsi tenacemente a idealità non passeggere come quelle dell'unità e del comune destino dell'Europa, saper risollevarsi da ogni sconfitta».

Anche per questo la storia di Napolitano è la biografia collettiva di una parte della generazione dei comunisti che, come ancora ha scritto lui stesso, non è «rimasta eguale al punto di partenza» ma è «passata attraverso decisive evoluzioni della realtà internazionale e nazionale e attraverso personali, profonde, dichiarate revisioni».

«C’è una frase di Berlinguer che di rado ho sentito richiamata», dice a Walter Veltroni che lo intervista per un libro uscito nel 2014, «”Che cos’è il Partito comunista italiano? È un partito comunista diverso da tutti gli altri”. Quel concetto di diversità mi andava bene», ragiona, «nonostante ciò, superare quella che ormai era una crisi fatale dell’ideologia, del movimento rivoluzionario, del processo politico del socialismo in Unione sovietica e in quel blocco di stati… Alla morte di Berlinguer, il mio stato d’animo fu perciò non solo quello del dolore personale, ma quello del senso del fatale declino del partito con cui avevamo entrambi identificato la nostra vita».

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