- Il governo continua la pratica di ridurre i decreti a emendamenti, comprimendo le possibilità di discussione alla Camera e al Senato che continuano così a perdere la loro centralità.
- Uno dei casi più significativi è stato il decreto Ristori, varato dal governo Conte bis, che nel corso dell’esame a palazzo Madama aveva assorbito altri tre decreti. Il più recente riguarda i decreti Covid del 2022.
- In una lettera il presidente della Repubblica aveva invitato il presidente del Consiglio Mario Draghi a evitare la pratica di decreti che inglobano altri decreti per permettere alle camere di poterli esaminare uno per volta.
Un governo che procede a colpi di emendamenti. O più esattamente: di decreti ridotti a emendamenti, in una sorta di matriosca legislativa, con il parlamento trasformato sempre più in spettatore.
Il compito di senatori e deputati è solo quello di approvare, vedendo passare via i commi, gli articoli e i rispettivi contenuti. Con buona pace degli appelli alla centralità delle camere.
L’ultimo monito è stato quello del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, durante il discorso di giuramento dopo la rielezione: «Sugli atti fondamentali di governo, il parlamento sia sempre posto in condizione di poterli esaminare e valutare con tempi adeguati».
Parole che tra i parlamentati presenti in aula alla Camera lo scorso 3 febbraio hanno raccolto decine di applausi.
La prassi, però, va nella direzione opposta, con il governo che impone le leggi e riduce i tempi. Una tendenza che si sta consolidando, anche a causa dell’evoluzione della pandemia.
Il paradosso dell’agenda Mattarella
Di fronte, infatti, all’emergenza non si può che agire per via emergenziale. Così si innesca il paradosso. I partiti convocano riunioni speciali sull’agenda Mattarella per avviare un confronto e tradurre in leggi condivise le questioni e i temi prioritari sollevati dal capo dello stato nel suo discorso.
Dall’altra parte la maggioranza viene scavalcata dal governo con modalità di azione spesso non rispettose dell’iter previsto. Difficile, in questo contesto, immaginare un ruolo del parlamento.
Sembra un mero tecnicismo, ma in gioco c’è la qualità delle norme. Negli ultimi giorni si è consumata l’ennesima forzatura, che spiega la dinamica in atto.
L’ultima forzatura
Il decreto Covid, il primo approvato quest’anno lo scorso 7 gennaio, è stato modificato e ampliato in gran parte da un emendamento, lo strumento che i parlamentari (e l’esecutivo stesso) hanno a disposizione per introdurre modifiche ai testi di legge prima della loro approvazione.
Nulla di anomalo. Le proposte di legge, così come i decreti, sono modificabili per definizione. Solo che quell’emendamento riprendeva per intero le norme introdotte da un altro decreto, quello del 4 febbraio, varato dal Consiglio dei ministri. E che aveva come oggetto sempre le misure di contrasto alla pandemia. Dunque, un decreto che viene ridotto a emendamento. E inserito nel testo di un decreto precedente.
Non solo. C’è stato un ulteriore passaggio anomalo che ha aggirato la procedura delle leggi. Martedì pomeriggio, poco prima delle 19, la della commissione Affari sociali della Camera ha inviato ai singoli parlamentari una email con il decreto trasformato in emendamento e firmato dal governo, indicando anche il termine per la presentazione dei cosiddetti subemendamenti (), ben prima che il nuovo decreto, quello di fine gennaio, fosse annunciato in aula a Montecitorio.
Il decreto non aveva nemmeno ricevuto il numero del testo di legge, assegnato a qualsiasi provvedimento alla Camera. Insomma, è nato prima l’emendamento del decreto.
Un precedente
Queste forme di forzatura, di decreti che inglobano decreti, si stanno ripetendo con frequenza nell’ultimo anno e mezzo.
L’esempio principale è il decreto Ristori, il primo provvedimento con gli indennizzi alle imprese e lavoratori autonomi colpiti dalla pandemia approvato dal governo Conte II.
Durante l’esame al Senato ha inglobato altri tre decreti, i successivi “ristori” che erano stati licenziati dal Consiglio dei ministri.
La presa di posizione è arrivata, in quell’occasione, dal comitato per la legislazione della Camera, un organo che si occupa di valutare la qualità delle leggi, sollevando il problema della legittimità costituzionale della procedura e lanciando un invito, pubblicato addirittura a dicembre 2020, «a evitare forme di intreccio tra più provvedimenti d’urgenza».
Il motivo è che «la confluenza in un unico testo di più articolati attualmente vigenti – che originano da distinte delibere del Consiglio dei ministri e distinti decreti del presidente della Repubblica – appare suscettibile di ingenerare un’alterazione del lineare svolgimento della procedura parlamentare di esame dei disegni di legge di conversione dei decreti legge».
Al di fuori del tecnicismo, si apre dunque un problema non secondario, di norme doppione. «Nei fatti c’è un periodo di covigenza delle leggi. Faccio un esempio. Per trenta giorni ci sono due norme identiche in vigore con diversi strumenti, una con il decreto che resta in vigore e l’altra per la legge che viene approvata dal parlamento», dice Andrea Pertici, docente di diritto costituzionale all’Università di Pisa.
Mattarella inascoltato
La questione è tornata di attualità ed è stata ripresa proprio da Mattarella, in una dettaglia lettera inviata a luglio 2021 ai presidenti delle camere, Roberto Fico e Elisabetta Casellati, e al presidente del Consiglio, Mario Draghi.
«Avverto la responsabilità di sollecitare nuovamente parlamento e governo ad assicurare che, nel corso dell’esame parlamentare, vengano rispettati i limiti di contenuto dei provvedimenti d’urgenza, come già richiesto con analoga lettera dell’11 settembre 2020», ha scritto il capo dello stato, ricordando il precedente.
Da qui il rilievo: «L’attività emendativa dovrà essere limitata dalla materia ovvero dalla finalità originariamente oggetto del provvedimento».
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