Per Enrico Letta non c’è solo la ovvia e «grande preoccupazione» per le fibrillazioni dell’alleato Cinque stelle. Il giorno dopo la drammatizzazione di Mario Draghi, che è salito al Colle per informare il presidente Mattarella di una crisi potenziale della sua maggioranza, per il segretario dem c’è anche, e soprattutto, la richiesta ai suoi di «non drammatizzare» la situazione, «non esacerbare» lo scontro con Conte. Dal Nazareno spiegano che è «evidente che il Pd sta dalla parte del presidente del consiglio» e cioè per rispettare «gli impegni presi con l’Alleanza nord altlantica nel 2019, sottoscritti proprio dal governo Conte». Presi in un momento storico-politico, viene sottolineato con forza, «in cui Trump voleva disimpegnarsi», dunque come reazione al populismo antieuropeista di quel presidente americano.

Letta è stupito dall’accelerazione di Conte. Ma in linea con la sua attitudine personale e anche caratteriale chiede ai suoi di non alzare i toni, di non esasperarli. Perché  il Pd, nonostante il suo 12 per cento di forza parlamentare, «è il baricentro del governo» ed è il capofila «di tutti quelli che si oppongono ai sovranisti», la «cerniera» delle forze della maggioranza. 

«L’accozzaglia giallorossa»

In giornata però fra Camera e Senato non sono poche le voci del Pd che puntano a allentare, se non proprio chiudere, l’alleanza con Conte, che nel frattempo ribadisce tutte le posizioni di ieri. «Accozzaglia», è la parola con cui Base riformista definisce ormai la coalizione con i grillini. In realtà dalla parte opposta del movimento c’è il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, leale al governo e agli impegni Nato. Fra Letta e l’ex capo politico dei Cinque stelle c’è ormai stima: «Sta gestendo bene le pressioni», spiegano dal Nazareno. In asse anche con il ministro della Difesa Lorenzo Guerini. Che, in perfetto stile «Forlani» – «Arnaldo» il suo soprannome in epoca renziana, deriva dall’attitudine a aggiustare spigoli appresa ai tempi in cui era un giovane Dc -  prova a andare incontro a Conte: spiegando che «dal 2019 ad oggi abbiamo intrapreso una crescita graduale delle risorse sia sul bilancio ordinario che sugli investimenti, che ci consentirà, se anche le prossime leggi di bilancio lo confermeranno, di raggiungere la media di spesa dei Paesi dell’Unione Europea aderenti alla Nato e poi, entro il 2028, il raggiungimento dell'obiettivo del 2 per cento». Conte e i suoi chiedono che l’impegno «sia spalmato entro il 2030». Non siamo lontanissimi.

Il governo non salta, l’alleanza chissà

L’importante, per Letta, è non cercare lo scontro. Se salta il governo salta anche l’alleanza giallorossa. Di più: l’alleanza giallorossa può saltare anche se non salta il governo. E invece secondo Letta alla fine un intesa sarà ineluttabile, visto che la legge con cui si andrà al voto resta quella maggioritaria. Per questo i trucchetti per lucrare qualche zero virgola di consenso agli alleati sono un gioco al massacro e a somma zero. L’improvviso voltafaccia grillino sull’aumento delle spese militari si può infatti spiegare in controluce sui numeri di un sondaggio Swg relativo all’ultima settimana: dà il Pd al 21,1 per cento, in calo dello 0,5, e M5S al 13,4, in crescita dello 0,5. Lo stesso istituto stima che il 52 per cento degli elettori Pd non è d’accordo con l’aumento delle spese militari, oltreché il 63 per cento degli elettori M5S.

L’imbarazzo 

L’argomento alleanza oggi imbarazza tutti. Da Base riformista ormai viene definita «l’accozzaglia». La sinistra del partito, senza schierarsi apertamente, avanzano comunque dubbi sul «riarmo», parola contestata, per non dire vietata dal Nazareno. Quelli che si sono immolati sull’altare giallorosso stanno prudentemente defilati. L’ex segretario Nicola Zingaretti, per esempio, «esclude assolutamente» che la vicenda delle armi mini la coalizione. Con un occhio alle prossime regionali nel Lazio: se il movimento non si allea al Pd, la vittoria della destra è un dato aritmetico. E questo vale, in misure diverse, anche nelle città che vanno al voto delle amministrative. L’altro grande pontiere fra Pd e Cinque stelle, anzi fra Pd e Conte, Goffredo Bettini, si è ritirato in un periodo di silenzio e di studio; sembra che stia scrivendo un libro.

La sinistra che non vuole rompere

La questione delle armi scava solchi meno drammatici sul fianco sinistro della coalizione. Leu è stata al fianco dei Cinque stelle nella richiesta di far votare l’ordine del giorno di Fdi in commissione. Stamattina Loredana De Petris, in un convegno sull’indipendenza energetica, ha ribadito che «le risorse  oggi vanno allocate sulle rinnovabili, non sulle spese militare». Sinistra italiana si schiera graniticamente contro la scelta del governo e accanto al movimento: «Non pare che M5S voglia far cadere il governo o uscire dal governo. Le condizioni per evitare rischi ci sono se si evitano aut aut e se si presta ascolto alle questioni politiche», avverte Stefano Fassina, «Tutti vogliamo rispettare gli impegni presi dall'Italia, ma serve chiarire il quadro politico e quello della finanza pubblica». Dello stesso avviso i Verdi. Ma gli uni e gli altrinon hanno intenzione di scassare con il Pd.

Tantomeno Art.1, a sua volta percorso dai distinguo, che in queste ore si sono fatti più forti.  Ai quali Pier Luigi Bersani ha risposto di essere favorevole a «mandare armi e intensificare le sanzioni contro Putin, ma senza andare oltre». Quanto ai Cinque stelle, Bersani, anche lui grande fan dei giallorossi, ammette che «nel tragico, spunta sempre il ridicolo. Si fa polemica su un ordine del giorno che conferma un impegno preso nel 2014 e sempre disatteso». Massimo D’Alema, l’altro padre nobile di Art.1, di armi non parla. Almeno non di armi all’Ucraina: è impegnato a difendersi dalle accuse sul suo ruolo nella vendita di armi italiane al governo reazionario della Colombia, un paese dove spariscono o vengono uccisi giornalisti, campesinos e guerriglieri che hanno accettato il processo di pace.

Il rapporto fra Art.1 e Pd è forte, ma la forma resta nel gorgo. Tanto più che le ultime vicende sulle spese militari – con tanto di voti positivi e ripensamenti successivi – spingono il partito più grande a chiedere «il linguaggio della verità». Sposare tesi riduzioniste sui fatti gravissimi di Mariupol o essere morbidi su letture «nénnéiste» improponibili rispetto alla più grave crisi europea dal 1945, è il ragionamento del Nazareno, in questa fase significa «non aver bene inteso il passaggio storico in cui siamo precipitati dal 24 febbraio», «Per fortuna che c'è Bersani a non far riprecipitare la sinistra indietro di trent’anni». 

Il congresso degli ex scissionisti è fissato per il prossimo 23 e 24 aprile. Il ventilato rientro nel Pd, formalmente smentito, è ancora congelato. E oggi ancora più lontano. Il documento a prima firma Roberto Speranza chiede «il mandato dei nostri iscritti per proseguire e completare nei prossimi mesi il confronto con il Pd e altre realtà politiche e associative dell’area progressista interessate all’obiettivo di costruire una proposta e una soggettività comune in vista delle prossime elezioni». Una “soggettività comune”, ovvero un partito comune? Difficile. Più probabile un’alleanza, fra Pd, sinistre e Cinque stelle. Insomma, il caro vecchio schema giallorosso. Sempreché il giallo non strappi.

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