«I lavoratori rappresentati nel governo del paese. Da oggi ognuno è più libero». Tra gli anniversari dimenticati di questo 2023 c'è anche questo, la nascita del primo governo di centrosinistra della storia repubblicana. Presieduto da Aldo Moro, giurò al Quirinale il 5 dicembre 1963, sessant'anni fa.

Il giorno dopo il quotidiano socialista L'Avanti! uscì con quel titolo che ha fatto storia, ispirato direttamente da Pietro Nenni, che di quel governo con il Psi nel governo era vicepresidente.

Sessant'anni di centrosinistra, con il trattino o senza, per arrivare all'oggi, all'amara considerazione di Arturo Parisi: «Siamo senza “centrosinistra” e senza “centro trattino sinistra”».

Eppure è quella l'area da cui è stato governato il paese per decenni, la strada italiana al governo di coalizione. Ha anticipato la alleanza tra popolari e socialisti che regge da tempo le istituzioni europee. E non è certo un caso che l'inesistenza del centrosinistra, con trattino o non, coincida oggi con il destracentro al potere e con un progetto di nuova Costituzione che rappresenterebbe uno strappo definitivo con quella tradizione.

Si fa presto a dire centrosinistra, ma di centrosinistra nella nostra storia recente ce ne sono stati almeno tre. Il primo centrosinistra di sessant'anni fa era legato in modo indissolubile al feeling personale e politico tra il democristiano Moro e il socialista Nenni.

«Il giudizio finale su Moro: ci incontravamo ogni giorno, per lui l'apertura a sinistra era un fattore fondamentale per la società italiana e non un miserabile espediente come per tanti altri», scrisse il vecchio capo socialista sul suo diario il giorno del ritrovamento del cadavere del presidente della Dc, il 9 maggio 1978. «Non un miserabile espediente», certo.

Per raggiungere l'obiettivo la Dc perse due milioni di voti alle elezioni del 1963, elettori moderati contrari alla svolta, il Psi subì la scissione di Lelio Basso e di 24 deputati confluiti nel Psiup al momento di votare la fiducia. Per andare avanti serviva il coraggio dei leader.

Masse protagoniste

«I partiti diversi per ideologia, ispirazione ed esperienza politica ritengono sia un dovere, oggi, unire la loro forze in vista di essenziali obiettivi politici: dare più vasta base di consenso e maggiore solidità allo stato democratico, assicurare una guida autorevole ed efficace al paese, mentre è in corso una grande trasformazione della società italiana, favorire quel processo di sviluppo per il quale, nell’ordine democratico, sempre più vaste masse di popolo sono protagoniste della nostra storia ed effettivamente e largamente i cittadini godono dei diritti umani, civili ed economico-sociali che la Costituzione repubblicana garantisce», disse il presidente del Consiglio Moro nel discorso della fiducia, il 12 dicembre 1963.

«Il governo si pone nello spirito dei tempi, nel grande movimento che scuote il mondo teso verso ambiziosi traguardi di libertà, di giustizia e di pace, come una forza non di cristallizzazione sociale, ma di rinnovamento e di progresso... Nella integrità delle libere istituzioni deve essere realizzato il progresso della nazione e promossa, nella giustizia e libertà per tutti, l’elevazione dei lavoratori sul terreno economico, sociale e politico».

Il governo finì subito nella morsa della conservazione e della reazione, anche oscura: potentati economici, apparati militari, congiure massoniche restrinsero subito il suo campo d'azione, insieme all'ostilità del Pci.

Ma Moro e Nenni governarono insieme per l'intera legislatura 1963-1968 (i governi di legislatura esistevano, nonostante Giorgia Meloni pensi il contrario) e alla fine del decennio dei Sessanta l'elenco delle riforme era notevole: attuazione della Costituzione (regioni, referendum), legge sul divorzio, statuto dei lavoratori...

«Nei cinque anni in cui Moro e io siamo stati a Palazzo Chigi non è stata versata una sola goccia di sangue. Tutto è entrato in crisi nel 1968, quando il centrosinistra perse il controllo della situazione, sopravvivendo a se medesimo in mezzo a grandi difficoltà operative», annotava Nenni il 27 aprile 1977.

«Negli anni Sessanta il paese respirò un'aria nuova di fiducia e di libertà, adesso c'è dubbio e rassegnazione», aggiungeva due mesi dopo. «Chi ebbe qualche parte in quella vicenda», scrisse Moro parlando anche di se stesso nel suo ultimo articolo per “Il Giorno”, pubblicato postumo nel 1978, «può fare pacatamente il bilancio, per il bene e per il male, di una straordinaria esperienza che ha contrassegnato la nostra epoca, dato un spessore nuovo alla democrazia, difeso tutto e anche la sinistra dal rischio di cristallizzazioni ritardatrici e devianti...».

Il pentapartito

Il secondo centrosinistra, poi ribattezzato pentapartito, ripartì all'inizio degli anni Ottanta, dopo il fallimento del tentativo di solidarietà nazionale, fondato sull'asse Dc- Pci, voluto da Moro e da Enrico Berlinguer.

Apparve di segno opposto alla svolta degli anni Sessanta, quasi una rotta verso destra, anticipata dalla vittoria delle correnti moderate della Dc nel congresso del cosiddetto preambolo, mai più una maggioranza con i comunisti, nel febbraio 1980. Il protagonista era il segretario del Psi Bettino Craxi arrivato a palazzo Chigi nel 1983, venti anni dopo l'ingresso nella stanza dei bottoni del suo maestro Nenni.

Il primo centrosinistra era stato anticipato da un decennio di scontri politici e culturali, congressi, convegni, riviste, dibattiti, quello degli anni Ottanta era fondato su un patto tra Craxi e le destre dc.

Lo «spirito dei tempi» era quello di importazione anglosassone, il binomio Reagan-Thatcher, la società non esiste, il governo non è la soluzione ma il problema. Cominciava lo spostamento del dibattito politico, dalle riforme sociali e civili alla lamentazione sulla Costituzione che non funzionava.

L'analisi di Craxi individuava il problema («Non è difficile prevedere quanto aspri si faranno i conflitti sociali e politici. Tutto sarà allora imprevedibile tranne l’aggravarsi della ingovernabilità del paese e di un più acuto e paralizzante logorio delle istituzioni», scriveva nel 1979), ma la soluzione era la scorciatoia presidenzialista individuata da Craxi per sbloccare una situazione considerata irrecuperabile.

E soprattutto l'elezione diretta del capo dell'esecutivo era considerata già allora la via maestra per consentire al presidente di superare i vincoli di coalizione e i problemi di un partito arretrato rispetto al suo leader. Anche il governo Craxi fu di fatto un governo di legislatura, nonostante la tensione permanente con la Dc di Ciriaco De Mita.

Ipotesi di remake

Il terzo centro-sinistra è tornato di attualità negli ultimi giorni, con l'ipotesi di remake dell'Ulivo di Prodi al governo tra il 1996 e il 1998. Cambiano gli attori, al posto dei socialisti ci sono gli eredi del Pci e in una posizione egemone, non sono più i figli di un dio minore, i discendenti della stirpe democristiana si blindano nei popolari che prima sono un partito a sé e poi una corrente, nella Margherita e nel Pd.

Parliamo di centrosinistra da quasi trent'anni ma solo quel governo in quel biennio può essere paragonato per capacità riformatrice agli anni Sessanta e Ottanta. Aver stroncato quel percorso per consegnare la guida del governo al segretario del partito maggiore, Massimo D'Alema, è stato l'errore che ha segnato l'inizio di una sorta di guerra civile arrivata fin qui.

L'abbattimento del trattino, perseguito da Prodi e Parisi, aveva come presupposto una democrazia maggioritaria, bipolare, una democrazia dei cittadini-elettori, con al centro la partecipazione diretta alle scelte, di cui le primarie erano solo un primo passo, il mito fondativo, come si disse.

Oggi di quel progetto non è rimasto nulla. Non c'è il sistema politico che lo giustifichi: siamo in un sistema proporzionale con l'innesto del partito della Premier che domina su tutto.

Non c'è il campo delle alleanze possibili: si fa fatica a collocare il Movimento 5 stelle in un vecchio schema di centro o di sinistra, soprattutto nella versione Conte M5S si adatta in modo plastico alla forma che più conviene.

Il centrosinistra è stato per sessant'anni l'area del governo del paese, nel senso delle riforme e del cambiamento degli equilibri di potere esistenti. È diventato un modello in Europa, dove socialisti e popolari sono da sempre alleati. In Italia ha poi seguito la parabola del trasformismo, del governismo a ogni costo e infine della dissoluzione.

Ma senza una sua ricostruzione non c'è soltanto un lungo dominio della destra al potere, ma anche un sistema democratico mutilato. Lo schema di gioco, in fondo, è semplice: l'attuazione e la realizzazione della Costituzione repubblicana contro il progetto della sua demolizione, la scrittura di un'autentica Costituzione europea democratica contro l'idea di un'Europa delle Nazioni, come ripete spesso su questo giornale Rino Formica, che di tutta questa storia è testimone e protagonista.

Infine, dare rappresentanza a chi è escluso. Nel 1963 Nenni li riassumeva nei lavoratori, oggi sono i giovani, le donne, i nuovi poveri, un campo immenso. Non spetta (più) alla politica rendere ognuno più libero: c'è il percorso individuale. Ma per costruire le condizioni della libertà serve almeno un granello del coraggio dei leader di sessant'anni fa. Il resto è un «miserabile espediente».

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