-
Il cdm ha approvato una stima «prudente» di Pil al più 1 per cento in un «quadro incerto». Nessuna ostentazione di ottimismo: la prospettiva dei prossimi due anni, con la messa a terra del Pnrr, inizia a impensierire l’esecutivo Meloni.
-
Sulla gestione migratoria fa un salto indietro al 2011: nominerà un commissario per sei mesi, probabilmente un prefetto, che lavorerà con la protezione civile e la Croce rossa e con lo stanziamento di 5 milioni di euro.
-
Per la vicepresidente del Pd, Chiara Gribaudo, invece, quella del governo è propaganda: «Non sanno gestire e regolarizzare l'immigrazione. Intanto gli imprenditori italiani avrebbero bisogno di 500mila lavoratori».
Dopo due ore di consiglio dei ministri, la riunione si è chiusa con due passaggi fondamentali per le prossime tappe politiche ed economiche: l’approvazione del documento di economia e finanza e la dichiarazione dello stato di emergenza per sei mesi per gestire i flussi migratori.
Quest’ultima decisione segna un netto cambio di direzione del governo nella gestione dei migranti: la prospettiva è quella di nominare un commissario per affrontare il problema dell’aumento degli arrivi dal nord Africa e dalla rotta turca. La scelta dell’esecutivo di Giorgia Meloni riavvolge il nastro politico, tornando al 2011, quando l’ultimo governo Berlusconi fece altrettanto con l’allora ministro dell’Interno, Roberto Maroni.
Lo stato d’emergenza
La decisione sembra essere una diretta conseguenza del naufragio sulla spiaggia di Steccato di Cutro, che il 26 febbraio ha provocato la morte di quasi cento persone. La proposta approvata nell’ultimo consiglio dei ministri è targata Nello Musumeci, ministro del Mare, e prevede lo stanziamento di 5 milioni di euro: «Abbiamo aderito volentieri alla richiesta del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, ben consapevoli della gravità di un fenomeno che registra un aumento del 300 per cento. Sia chiaro, non si risolve il problema, la cui soluzione è legata solo ad un intervento consapevole e responsabile dell’Unione europea». La misura è destinata a far discutere perché i numeri degli sbarchi, per quanto in aumento rispetto all’anno scorso, rimangono comunque gestibili, inoltre il governo prevede di potenziare anche i meccanismi di identificazione ed espulsione. Nominando un commissario, l’obiettivo è quello di intervenire più velocemente sia nella gestione degli sbarchi che nella redistribuzione dei migranti sul territorio nazionale. Una scelta, questa, che è in linea con l’orientamento politico del governo: parlare di «emergenza» migratoria, per aumentare la pressione sull’Unione europea ma anche alzare la tensione interna, dirottando l’attenzione dell’opinione pubblica di nuovo sul tema dell’immigrazione, sviandolo invece da quello economico.
La scelta di sfruttare la strada emergenziale ha provocato reazioni sia sul fronte delle oppposizioni che su quello delle parti sociali. Lo stato d’emergenza «non faccia dimenticare che il sistema di accoglienza in Italia ha bisogno di essere rafforzato» e «non bisogna dare la percezione che i migranti sono un problema emergenziale», ha commentato il presidente della fondazione Migrantes, monsignor Giancarlo Perego. Per la vicepresidente del Pd, Chiara Gribaudo, invece, quella del governo è propaganda: «Non sanno gestire e regolarizzare l'immigrazione. Intanto gli imprenditori italiani avrebbero bisogno di 500mila lavoratori». Dello stesso avviso Angelo Bonelli dei Verdi, secondo cui «lo stato di emergenza è un'invenzione per coprire le responsabilità del governo», che non ha ottenuto nulla nel suo confronto con l’Unione europea e i paesi del Mediterraneo.
Il def
il documento di economia approvato, invece, fissa un tasso di crescita è leggermente più alto rispetto alle anticipazioni: 1 per cento, che dovrebbe salire all1,5 per cento nel 2024. Nello scenario tendenziale, a regole invariate, la stima di crescita per il 2025 è del 1,3, che calerà all’1,1 per cento nel 2026, «a causa di prassi metodologiche concordate a livello di Unione europea», ha spiegato in una nota il ministero dell’Economia.
Numeri che lo stesso ministro, Giancarlo Giorgetti, ha definito «prudenti». Il documento, infatti, ha tenuto conto «di un quadro economico finanziario che rimane incerto e rischioso a causa della guerra in Ucraina, di tensioni geopolitiche elevate, del rialzo dei tassi di interesse» e dell’affiorare di «crisi localizzate nel sistema bancario e finanziario internazionale». Tuttavia, «I recenti indicatori, tra cui gli indici di fiducia di famiglie e imprese, segnalano che nei primi mesi del 2023 l’economia del Paese ha ripreso a crescere».
Il Def, che delinea gli obiettivi di politica economica del governo, indica due punti prioritari: interventi a favore di famiglie e imprese e rilancio degli investimenti, garantendo però la sostenibilità dei conti pubblici «con una graduale riduzione di deficit e debito». Tenere insieme tutto, però, è complicato soprattutto perchè la vera variabile sulla proiezione di crescita del prossimo anno è l’attuazione del Pnrr, il grande scoglio per il governo sia sul piano politico che economico. A pesare, infatti, è il dato ormai certificato dalla Corte dei conti: l’Italia va a rilento nell’attuazione del piano nazionale di ripresa e resilienza, che è strumento fondamentale per sostenere la domanda interna. Ogni anno che passa senza riuscire ad accelerare i tempi produce effetti, con una perdita del Pil, e la congiuntura peggiore sarà quella tra il 2024 e il 2025, quando i progetti dovrebbero cominciare ad arrivare a compimento.
Tutta colpa del superbonus
Nel 2022, il rapporto tra il debito e il Pil è stato del 144 per cento, inferiore di 1,3 punti percentuali rispetto alle previsioni di novembre e la diminuzione, secondo lo scenario programmatico, «continuerà progressivamente a scendere nel 2023, al 142,1 per cento, nel 2024, al 141,4, fino a raggiungere il 140,4 per cento nel 2026». Tuttavia, il governo non rinuncia a sottolineare che la riduzione avrebbe potuto essere anche maggiore «se il superbonus non avesse auto gli impatti sui saldi di finanza pubblica che sono stati finora registrati».
Quanto al deficit, l’obiettivo è di mantenerlo sulla percentuale esistente del 4,5 per cento, che si dovrebbe ridurre al 3,7 nel 2024, 3,0 nel 2025, fino al 2,5 nel 2026. Questo, secondo il ministero, permetterà di introdurre in un prossimo provvedimento «un taglio dei contributi sociali a carico dei lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi di oltre 3 miliardi a valere sull'anno in corso». Proprio questo taglio del cuneo fiscale dovrebbe contribuire a sostenere il potere d’acquisto delle famiglie e, sempre secondo il Mef, dovrebbe impedire una «una pericolosa spirale salari-prezzi». La parola d’ordine del governo, tuttavia, rimane «prudenza», in quello che continua ad essere definito un quadro «incerto e rischioso». Nessuna ostentazione di ottimismo: la prospettiva dei prossimi due anni, con la messa a terra del Pnrr, inizia a impensierire l’esecutivo Meloni.
© Riproduzione riservata