- Il polo escluso di Piero Ignazi (Il Mulino) è la prima storia del Movimento Sociale Italiano di taglio accademico. Uscito nel 1989, è ora in una nuova edizione con un capitolo che arriva fino ai nostri giorni
- Il Msi si caratterizza fino alla fine per l’ancoraggio ideale al neo-fascismo. La svolta di Alleanza nazionale fu invece il frutto dell’iniziativa del leader, Fini, ma non venne condivisa dal resto del partito
- Fratelli d’Italia rivendica invece le sue radici missine, eccezion fatta per l’anti-americanismo che viene abbandonato. Il modello è la Polonia, dove però i diritti civili e le libertà sono gravemente sotto attacco
Pubblicato nel 1989, Il polo escluso di Piero Ignazi (Il Mulino) è la prima storia del Movimento sociale italiano di taglio accademico. Né militante, né apologetica ricostruisce con dovizia di dati e documenti le vicende, il dibattito politico e culturale, ma anche l’organizzazione, l’elettorato, la classe dirigente e i quadri intermedi, di quello che era allora un partito marginale nello scacchiere politico italiano, in quanto erede del fascismo. Ma un partito vero, che celebrava congressi e discuteva, con un quotidiano, riviste, associazioni collaterali, compreso un sindacato: alcune centinaia di migliaia di iscritti, decine di sindaci, di consiglieri regionali, di parlamentari, migliaia di consiglieri comunali. Il polo escluso, appunto, nella coniazione di Ignazi. O «partito anti-sistema», per dirla con Giovanni Sartori: ostile alla visione liberal-democratica e prima ancora ai valori dell’Illuminismo, estraneo alla nostra Costituzione antifascista e per questo ben più anti-sistema anche del Partito comunista (ma su questo torneremo).
Una storia di successo?
Allora era ai margini. Oggi il suo erede, dichiarato (la fiamma è nel simbolo), è la principale forza politica e governa l’Italia. Il polo escluso è una storia di successo. E andrebbe riletto innanzitutto per questo, per capire le radici storiche di Fratelli d’Italia, mai recise. Non a caso viene ora riproposto in una nuova edizione, arricchita di un capitolo in cui si ricostruisce l’«altalenante percorso della fiamma» negli ultimi decenni, fino alla vittoria nel 2022.
Emergono due o tre punti su cui riflettere.
Primo, la collocazione del Msi nella Prima Repubblica non è stata immutabile. Negli anni Cinquanta, alleandosi con i monarchici e con pezzi del notabilato meridionale, quel partito dichiaratamente neofascista ottiene risultati a due cifre nel Centro-Sud e comincia a proporsi alla Democrazia Cristiana come alleato, puntello anti-comunista. Il tentativo giunge a successo nell’estate del 1960, con la nascita del governo Tambroni sostenuto da Dc e Msi. Soprattutto una forte mobilitazione della sinistra e di tutte le forze antifasciste (anche interne alla Democrazia cristiana) fanno fallire rapidamente quell’esperienza e «cacciano il Msi nel ghetto dell’opposizione anti-sistema». Di lì a poco si aprirà quindi, con l’alleanza fra Dc e Psi, forse la più importante stagione di riforme nella storia del nostro paese. Ma è bene ricordare che quest’esito non era affatto scontato.
Custode del neofascismo
A partire dalla segreteria di Almirante, nel 1969, il «polo escluso» torna a mostrare una certa vitalità, che lo porta perfino a sintonizzarsi con una parte, minoritaria, della contestazione giovanile. È una vitalità anche culturale. Certo, i neo-fascisti non sono in grado di esercitare nessuna «egemonia», non c’è nulla di paragonabile a quel che precedette l’ascesa del fascismo vero e proprio all’inizio del Novecento (si pensi a D’Annunzio e Marinetti, al futurismo, all’interventismo). Ma è significativo che ci provino: valga per tutti il tentativo di appropriarsi di una figura dello spessore e della notorietà di Lucio Battisti. L’artista in realtà non c’entrava nulla con quel mondo, eppure nel sentire popolare una qualche connessione fra Battisti e il Msi è rimasta, segno di quanto un’operazione così azzardata avesse fatto breccia. Oltretutto il mondo giovanile del Msi aveva anche il proprio parterre di cantanti e gruppi, che si esibivano nei loro festival, loro sì apertamente neo-fascisti, e del tutto sconosciuti al grande pubblico (e la giustificazione addotta era che, a differenza di un Dalla o di un Venditti, non erano legati al sistema di potere delle sinistre: davvero un «polo escluso»).
In quel periodo, nel 1972, il Msi raggiunge il massimo consenso elettorale: l’8,7 per cento a livello nazionale. In una città come Napoli supera il 26 per cento, a Catania sfiora il 31; a Roma va oltre il 17 per cento, ma anche a Milano oltre il 10. Ha più di 400mila iscritti. Siamo però nel pieno della strategia della tensione, del terrorismo rosso e nero e, sospeso fra legalità ed eversione, e tenuto fuori da ogni possibile alleanza, il partito si avvia al declino elettorale: oscillerà fa il 5 e il 7 per cento fino al crollo della Prima repubblica.
Ma in tutto questo periodo rimane – ed è questo il secondo punto su cui riflettere – saldamente ancorato alla cultura del neofascismo. Sulla politica estera e la visione del mondo, ancora alla fine degli anni Ottanta la linea di gran lunga prevalente è quella di un nazionalismo europeo anti-americano e anti-illuminista, e per certi versi anche anti-occidentale: si pensi che, nel 1987, l’82,5 per cento dei quadri pensa che gli Usa siano una potenza imperialista, il 75 per cento che gli europei non contino nulla nella Nato; la maggioranza è anche critica verso Israele. Significativa, però, è una relativa apertura verso le idee laiche e una qualche affinità con il Psi di Craxi, più che con qualsiasi altro partito tradizionale: un presagio di quel che verrà?
La differenza fra An e Fratelli d’Italia
Quello che verrà ci viene raccontato nell’ultimo capitolo, interamente nuovo. Nella Seconda Repubblica, grazie ai loro successi elettorali sulle ceneri del Pentapartito, e grazie a Silvio Berlusconi che già nel 1993 pone fine all’esclusione, gli eredi del fascismo vanno al governo. Il loro leader, Gianfranco Fini, intraprende un percorso di avvicinamento e adesione ai valori della democrazia liberale e, nel 1995, trasforma il Msi in Alleanza nazionale. Non c’è però una vera discussione all’interno del partito, le svolte sono affidate alle fughe in avanti del leader, che trascina su questo i suoi, spesso nolenti, tanto che a un certo punto i suoi li perde: e qui sta in sintesi il fallimento del progetto finiano.
Quando nasce Fratelli d’Italia, nel 2012, Ignazio La Russa e Giorgia Meloni compiono tutt’altra operazione: non rinnegano i valori dell’estrema destra, anzi li rivendicano. Sono ora del tutto in linea con altre esperienze dell’estrema destra europea, pure in ascesa, a cominciare dalla Spagna (si guardi su questo il libro di Steven Forti, Extrema derecha 2.0, Siglo XXI, 2021). E c’è una differenza in peggio rispetto al Msi, come peraltro avevano già evidenziato Vassallo e Vignati in Fratelli di Giorgia (il Mulino, 2022): raramente si celebrano congressi (tantomeno primarie, pure previste), o si discute negli organi preposti; statuto e regole vengono qui ampiamente disattesi. L’ultimo congresso di Fratelli d’Italia risale ai tempi del governo Gentiloni, il 2017 (il Pd nel frattempo ne ha celebrati due): la Tesi di Trieste, elaborate in quell'occasione, denotano «un'intima connessione sentimentale e ideologica con il neofascismo», scrive Ignazi. La stessa impressione, solo un po’ edulcorata, si ricava leggendo il libro manifesto di Meloni, Io sono Giorgia (Rizzoli, 2021), come scrivemmo su questo giornale.
Giorgia Meloni riesce però a far passare nel discorso pubblico due elementi di novità. La sua leadership femminile, benché tutt’altro che femminista. Quindi la virata a U sull’atlantismo, in occasione della guerra in Ucraina, che la legittima negli ambienti internazionali. Il modello, dichiarato, adesso è la Polonia, bastione dell’atlantismo ma dove, in questi anni, la destra al governo ha imposto un grave arretramento nei diritti civili e nelle libertà.
E a sinistra?
Rimane una constatazione, speculare. Dall’altra parte, il Pci in fondo aveva molto meno da farsi perdonare, rispetto al Msi: è sempre stato uno strenuo difensore della democrazia e della Costituzione. Inoltre ha avuto ripensamenti ben più profondi e convinti, già nella Prima Repubblica e ancora di più nella Seconda. Per non parlare della nascita del Pd e poi del confronto con Fratelli d’Italia. Sulla guerra in Ucraina, la posizione del Pd è stata almeno altrettanto ferma, e senza le contraddizioni pregresse di Meloni. Perché allora alla sinistra viene perdonato molto meno? L’impressione è che una parte dei nostri ceti dirigenti guardino con tale ostilità alle politiche di contrasto alle disuguaglianze che, pur di evitarle, siano disposti ad allearsi con l’estrema destra, accettando il rischio di una deriva illiberale sul modello polacco. Forse sottovalutano questo rischio, anche perché non conoscono le radici, forti e profonde, di Fratelli d’Italia. Anche per questo è utile questo libro.
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