- Sono le ore nere di Giorgia Meloni: non le è stato mai così evidente il nido di guai in cui si è infilata circondandosi di presunti fedeli ma inadatti al ruolo.
- Dopo gli anonimi di palazzo Chigi, ieri mattina infatti sono arrivati quelli di via Arenula. Il Guardasigilli, a Tokyo per il G7, ha fatto come la premier.
- A palazzo Chigi l’asticella per la resistenza di Santanchè al governo è quella del rinvio a giudizio. Posizione che ieri Forza Italia ha ribadito anche su Delmastro.
I dubbi sul destino di Daniela Santanchè che aumentano di ora in ora; il veleno a rilascio lento che ha assunto, con il ministro Nordio, quando ha deciso di tenersi il sottosegretario Andrea Delmastro; ed ora persino un’indigeribile accusa di stupro al figlio del “suo” Ignazio La Russa, l’ennesimo imbarazzo a cui la costringe l’intemperante presidente del senato, seconda carica dello stato.
Sono le ore nere di Giorgia Meloni: non le è stato mai così evidente il nido di guai in cui si è infilata circondandosi di presunti fedeli ma inadatti al ruolo; non sono stati mai così ravvicinati i colpi all’esecutivo come in questi ultimi tre giorni.
La reazione affidata a “fonti di palazzo Chigi” filtrata giovedì sera sui casi Santanchè e Delmastro («È lecito domandarsi se una fascia della magistratura abbia scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione e di inaugurare anzitempo la campagna elettorale per le elezioni europee») le ha scatenato l’accusa di invocare, più che evocare, lo scontro con la magistratura, senza neanche il coraggio di metterci la faccia. «Non si ha memoria di uno scontro istituzionale di tale portata condotto con tale vigliaccheria», secondo l’ex ministro Giuseppe Provenzano.
Dopo gli anonimi di palazzo Chigi, ieri mattina infatti sono arrivati quelli di via Arenula. Il Guardasigilli, a Tokyo per il G7, ha fatto come la premier: ha mandato alle agenzie le riflessioni di un’altra fonte senza volto, riferibile al ministro ma non direttamente: che manifesta «lo sconcerto e il disagio per l’ennesima comunicazione a mezzo stampa di un atto che dovrebbe rimanere riservato» (non parla delle notizie rese pubbliche dal sottosegretario sul caso Cospito ma delle indagini cui è sottoposta la ministra del Turismo); e annuncia una riforma «radicale» che cancelli «l’anomalia» che porta il suo sottosegretario (che lui all’epoca aveva difeso controvoglia) in una presunta situazione paradossale, ora che il gip ne ha chiesto l’imputazione coatta: «L’accusa non farà altro che insistere nella richiesta di proscioglimento in coerenza con la richiesta di archiviazione. Laddove, al contrario, chiederà una condanna non farà altro che contraddire sé stesso».
Il combinato delle «fonti anonime» mira a sostenere la tesi del complotto dei magistrati contro il governo. Menti più sgombre, forse anche dal timore di essere travolti dai propri errori e dalle loro conseguenze, vedrebbero che in queste due distinte vicende i magistrati si sono dimostrati persino cauti rispetto alla baldanza giustizialista dell’era berlusconiana.
A Milano l’indagine per bancarotta contro la ministra del Turismo è stata secretata per i primi tre mesi, come prevede la legge: caso rarissimo, ascrivibile probabilmente alla cautela degli inquirenti. A Roma il pm Paolo Ielo ha chiesto il proscioglimento di Delmastro sulla base dell’«assenza dell’elemento soggettivo del reato» pur riconoscendo «l’esistenza oggettiva della violazione del segreto amministrativo». Tradotto: l’avvocato-sottosegretario non sapeva o non capiva che quello che aveva tra le mani era un «segreto amministrativo» e per questo ne ha parlato con il suo compagno di casa Giovanni Donzelli, che a sua volta ha declamato l’atto segreto in parlamento.
Stavolta sembra francamente un appiglio evocare la giustizia a orologeria dei brutti tempi andati, come pure fanno alcuni editorialisti ispirati dagli anonimi di governo. La giustizia farà il suo corso, sono le condizioni in cui si sono cacciati i due ad essere politicamente indecenti.
L’asticella di Palazzo Chigi
A palazzo Chigi l’asticella per la resistenza di Santanchè al governo è quella del rinvio a giudizio. Posizione che ieri Forza Italia ha ribadito anche su Delmastro. «Per noi fino a che non ci fosse un rinvio non devono dimettersi», spiega Raffaele Nevi a La7, anche se chiosa che fin lì «le dimissioni sono una scelta libera e che attiene alla responsabilità dei singoli». Vedremo quando i tempi della giustizia si compiranno, non prima dell’autunno. Eppure un rinvio non è una condanna, dunque in questo caso i garantisti a intermittenza affidano alla magistratura decisioni che dovrebbe essere affrontate adesso, sulla base di valutazioni politiche.
Nel caso di Delmastro, poi, sarebbe difficile che il passo indietro non riguardasse anche il Guardasigilli che alla Camera si è esibito in una imbarazzante difesa del sottosegretario. Non pretendendo le dimissioni a suo tempo, Nordio ha legato la sua sorte a Delmastro.
Come e peggio di Grillo
Infine il terzo episodio, quello potenzialmente più infamante per Meloni, è l’accusa e l’indagine per stupro a carico del figlio del suo papà politico e consigliere spirituale La Russa. Quello secondo cui i nazisti di via Rasella erano «una banda musicale», degli strattoni ai giornalisti e della Costituzione che non è antifascista. Il fattaccio denunciato è brutto, le indagini diranno com’è andata. Ma La Russa ha già emesso la sentenza: ha «interrogato» il figlio e ha «la certezza» che «non abbia compiuto alcun atto penalmente rilevante». Cuore di papà, si potrebbe dire.
Se non che la seconda carica dello stato fa come e forse peggio di Beppe Grillo, capitato in una circostanza simile: avanza dubbi sull’attendibilità della giovane denunciante. Un classico di qualsiasi difesa nei processi per stupro. Un ciarpame maschilista considerato inascoltabile in consessi civili o solo decenti. Poi La Russa dice di essere stato «frainteso», come ogni volta. Ma le sue parole fanno scattare la segretaria Pd Elly Schlein: «È disgustoso sentire dalla seconda carica dello Stato parole che vogliono minare la credibilità delle donne che denunciano una violenza sessuale a seconda di quanto tempo ci mettono, o sull’eventuale assunzione di alcol o droghe, come se questo facesse presumere automaticamente il loro consenso».
Meloni tace, per ora. Stavolta quando parlerà ne dovrebbe coprire tre insieme. Due potrebbero travolgerla con i loro guai giudiziari (è suo il caveat che al rinvio si devono dimettere, non di un giustizialista grillino); il terzo, se lei non si dissocia, può spegnere per sempre la stella di essere la prima donna a palazzo Chigi.
© Riproduzione riservata