- La cancellazione del superbollo è stata rinviata per mancanza di risorse. Era stata inserita nella delega fiscale, ma il ministero dell’Economia ha accolto i rilievi della Ragioneria dello Stato. Serve una «valutazione», ha sostenuto il Mef.
- Sul tavolo del governo si stanno accumulando dossier irrisolti, che possono essere rinviati a ottobre. Ma poi dovranno arrivare delle risposte, come sull’attuazione del Pnrr.
- Brusca frenata sulla flat tax, che non sarà prevista per i dipendenti. E dopo l’incontro alla Camera di maggio, pure il cammino delle riforme procede a rilento.
I conti non tornano, le promesse elettorali non possono essere mantenute, il Pnrr non viene attuato. E le riforme istituzionali finiscono in stand-by. L’estate politicamente calda del governo Meloni è piena di affanni e sta diventando il preludio a un autunno bollente. Perché tra un rinvio e un altro, alla fine bisognerà dare delle risposte su ogni singolo dossier, sia al paese che all’Europa. I nodi si aggrovigliano sempre di più, facendo impallidire i grattacapi provocati negli ultimi giorni dal Mes.
E mentre la premier alla Camera ha esaltato la situazione dell’economia italiana, gli indicatori per i prossimi mesi alimentano le preoccupazioni sulla frenata della crescita: la produzione industriale di aprile è diminuita dell’1,9 per cento rispetto al mese precedente. Nel periodo febbraio-aprile, invece, il livello della produzione è calato dell’1,3 per cento in confronto ai tre mesi precedenti. Ancora peggio il raffronto con l’anno scorso: -7,2 per cento. A fare il paio c’è l’inflazione che sta rallentando, certo, ma continua a divorare il potere d’acquisto degli italiani. A giugno il “carrello della spesa”, i prodotti più acquistati, è aumentato del 10,7 per cento. Numeri che Meloni non può nascondere sotto il tappeto della propaganda da comizio, praticata in parlamento.
Superbollo congelato
La difficoltà del governo si tramuta nello stop dei provvedimenti in agenda. L’ultimo caso è quello del superbollo, una grande battaglia del leader leghista, Matteo Salvini. Aveva garantito l’eliminazione. «È una tassa odiosa», è una delle tante dichiarazioni rilasciate in materia. Un affondo verso un balzello di certo non amato dagli italiani, l’altra faccia della medaglia della richiesta di abolizione del canone Rai. La narrazione propagandistica si è infranta contro il principio di realtà: l’assenza di risorse.
La soppressione della tassa per le automobili è stata rinviata. Fratelli d’Italia e Lega hanno marciato uniti per inserire la misura fin da subito nella delega fiscale, in esame in commissione finanze alla Camera. Il tentativo è naufragato, non è sufficiente la buona volontà politica: mancano i soldi. Occorre prima una «valutazione» per «un eventuale» quanto «progressivo superamento» senza «aggravi di spesa», ha specificato il ministero dell’Economia.
Al netto delle formulazioni burocratiche della ragioneria dello Stato - sposate dal Mef guidato da Giancarlo Giorgetti - significa che se ne parlerà in futuro, quando saranno reperiti altrove i fondi necessari, stimati in 130 milioni di euro.
Stesso destino è capitato a un’altra promessa elettorale: la flat tax. È stato stabilito che la tassa piatta incrementale non sarà prevista per i dipendenti. Così la cornice della delega diventa sempre più sfumata, i contenuti vaghi. E vengono rimandati ai futuri decreti legislativi. A maggior ragione nel governo aumenta la fretta di approvare il testo della delega prima della pausa estiva in parlamento. Almeno verrebbe piazzata una bandierina.
Poltrone da Pnrr
Una magra consolazione per esorcizzare un altro punto dolente: il piano nazionale di ripresa e resilienza, il famigerato Pnrr si sta tramutando in un incubo per il governo. Oggi scadono i termini per il raggiungimento degli obiettivi necessari a ottenere la quarta rata, da 16 miliardi di euro. Il problema è che la terza tranche, prevista da 19 miliardi di euro, non è stata ancora erogata. «Il confronto con Bruxelles si concluderà nelle prossime ore», affermava - il 20 giugno - il ministro Raffaele Fitto. Sono passati altri dieci giorni, non poche ore, senza novità.
E più che i soldi del Recovery plan, al governo sembrano interessare gli incarichi da dispensare. L’accentramento della governance pretesa da Fitto è stato il pezzo principale di un’operazione più ampia. Il decreto, approvato in settimana in consiglio dei ministri ed entrato in vigore martedì, ha prorogato i termini per riorganizzare le unità di missione dei singoli ministeri, messe in piedi per l’attuazione del piano.
La scadenza era stata fissata il 30 giugno, ora ci sarà un tempo addizionale per cambiare i vertici e risistemare le strutture. Lo slittamento è insomma una specialità della casa a Palazzo Chigi. Solo che quando si parla della realizzazione del Pnrr non è proprio un grande vantaggio, come testimonia il fastidio dell’Unione europea.
Il governo Meloni, che sbandierava il «siamo pronti» come slogan, ha poche idee, pure confuse, sulla riforma delle pensioni. La fase di approccio con i sindacati è stata deludente, ci sono delle proposte in attesa di acquisire una precisa fisionomia. Sullo sfondo resta il ritorno della legge Fornero, quello che Salvini ha sempre etichettato come «l’infame legge Fornero». Sarebbe la madre di tutte le beffe. La via d’uscita non è agevole, perché bisogna reperire le risorse.
Riforme incagliate
Anche quando non si parla direttamente di soldi, la destra va in apnea, spalancando le porte a un autunno nella palude. A inizio maggio Meloni aveva convocato a Montecitorio tutte le forze politiche per il confronto sulle riforme istituzionali. Da allora la questione è stata di nuovo affidata dalla ministra delle Riforme, Elisabetta Alberti Casellati, che ha promosso una serie di incontri con le parti sociali. Ordinaria amministrazione, quindi. Il tema è però sparito dai radar, non si scorge una proposta concreta da avanzare alle opposizioni.
A Palazzo Madama, invece, procede a rilento il confronto sull’autonomia differenziata. La Lega spinge, Fratelli d’Italia frena. Le perplessità restano intatte. Ne è testimonianza diretta il dossier di Palazzo Madama, ancora consultabile sul sito del Senato. La pubblicazione aveva fatto scoppiare un putiferio, con il documento occultato per qualche ora.
Adesso campeggia ancora come dossier del provvedimento, seppure con la dicitura “bozza provvisoria non verificata”. È da maggio che si attende un aggiornamento e una “verifica” per avere un’analisi obiettiva da parte del servizio di bilancio. Il sospetto è che la stesura non avesse il carattere della provvisorietà.
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