Il discorso del presidente della Repubblica per il 75esimo anniversario del 2 giugno 1946 era molto atteso. Ma di fatto è stato poco commentato; forse per delusione, o perché ha aperto una riflessione. Seguiamo la strada della riflessione. Il presidente ha scelto il palazzo del Quirinale, luogo simbolo del più alto dei vertici istituzionali. Nel cortile ha convocato due platee, i rappresentanti delle istituzioni e i ragazzi, quelli che tra dieci anni saranno la classe dirigente del paese. Il discorso era indirizzato ai ragazzi. A loro ha aperto la narrazione della storia della quale sono figli. Una narrazione meticolosa su come nasce la Repubblica. Il paese esce da cinque anni di guerre - sono tre le guerre che l’Italia ha combattuto, quella con i tedeschi, quella contro i tedeschi e quella civile fra gli italiani -, la distruzione del tessuto umano, della coesione del paese, è più dolorosa della distruzione materiale. I pionieri di quella generazione ruppero con il regime monarchico, votarono per la Repubblica e nei principi della Carta innestarono il legame indissolubile fra libertà politiche e libertà sociali. Nella seconda parte della Carta c’è l’ordinamento incardinato sulle garanzie e sul bilanciamento dei poteri.

Il discorso è tutto diretto ai giovani perché si prendano la responsabilità di guidare il nuovo ciclo storico, pionieri del legame fondativo delle due patrie: la patria che ha dato la forza di diventare protagonista in Europa e la patria europea tutta da costruire.

L’obiettivo è chiaro. Ma quando i grandi escono di scena non devono solo indicare una strada ma anche lasciare le condizioni perché sia percorsa. Servono istituzioni forti, e invece le istituzioni sono deboli. Vedo un segno nel non aver scelto le camere per pronunciare il discorso del 75esimo.

Un’occasione

C’è un’occasione adesso, ed è il 25 di giugno, giorno in cui nel ‘46 si inaugurò l’Assemblea Costituente. In quel giorno le due camere dovrebbero riunirsi. E il presidente dovrebbe rivolgersi stavolta alle istituzioni perché facciano un esame di coscienza, se sono o no in condizione di esercitare con autorevolezza il passaggio al ciclo della costruzione dello stato europeo. Non possiamo affrontare profonde riforme senza una verifica della rispondenza fra i voleri del paese e l’indirizzo del cambiamento. Le camere devono dichiarare qual è il momento nel quale chiederanno l’appello popolare. Nel 1968 venne in Italia, nella mia città di cui ero vicesindaco, John Kenneth Galbraith per un giro di conferenze, e spiegò che il potere politico è «il potere di gratificare e di punire. Se fatto in nome e con il controllo di molti è democratico; se è fatto in nome e con il controllo di pochi è autocratico». Oggi in Italia il potere non è nelle mani dei molti. E le istituzioni deperiscono o riprendono respiro se sono in condizioni di capire la propria debolezza. Altrimenti il potere di punire e gratificare oggi, nel vuoto delle istituzioni, è nelle mani della magistratura che ha la possibilità di intervenire punendo, gratificando, correggendo, stravolgendo, cambiando e restaurando. I referendum sulla giustizia aiutano a porre il problema, ma il problema è grande e non si può affrontare con escamotage. Si è rotto il bilanciamento dei poteri. La prima parte della Costituzione, quella dei valori, è diventata un miraggio. E la seconda, quella dell’ordinamento, è diventata la cancellazione del bilanciamento dei poteri. Un’assemblea comune il 25 giugno: così come nel 45 inaugurò la Costituente e quella generazione di coraggiosi trovò un punto di incontro per fare rottura e cambiamento, oggi deve portare a una presa di coscienza di massa perché nasca l’Italia con la direzione della nuova generazione, quella dei due patriottismi fusi in uno.

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