- Al novantasettesimo tentativo, oggi finalmente la Camera dei deputati ha approvato la prima legge italiana sulla rappresentanza di interessi, provocando infiammazioni nelle chat dei lobbisti storici della politica romana.
- Eppure la norma è un compromesso groviera tra i partiti di maggioranza. Non ci sono regole sui portatori di interesse stranieri. Confindustria e sindacati non sono considerati lobbisti.
- I dirigenti non sono considerati decisori pubblici. E i limiti alle revolving doors? Un anno e solo per i membri del governo.
Al novantasettesimo tentativo il parlamento italiano ha finalmente votato una legge sulla regolamentazione dell’attività di lobbying: il primo via libera in quasi cinquant’anni di proposte affondate nei corridoi di Camera o Senato. Ieri i deputati hanno approvato con 339 voti a favore, nessuno contrario e l’astensione di Fratelli d’Italia e Alternativa, il testo nato dai compromessi e dalle limature tra le forze di maggioranza sulla base della proposta del deputato Cinque stelle, Francesco Silvestri.
La legge, ora attesa all’esame del Senato, prevede l’istituzione di un registro unico nazionale dei lobbisti e la vigilanza sulle attività di tutti i rappresentanti di interessi che si rapportano con membri del governo, del parlamento, di giunte e consigli regionali e provinciali, dei comuni capoluogo di Regione, e gli organi di vertice degli enti pubblici statali».
La norma obbliga alla registrazione degli incontri dei diversi rappresentanti di interessi coi decisori pubblici, alla precisazione del tema dell’incontro e, spingendosi anche più in là delle regole europee, alla pubblicazione della eventuale documentazione. In più vieta forme di finanziamento tra portatori di interesse e decisori pubblici.
Considerando le frenetiche chat di ieri tra i lobbisti storici che si muovono attorno alla politica romana, la norma già così come è sta provocando grossi mal di stomaco. E pensare che questo compromesso ha almeno cinque grossi limiti.
Il parlamento abbia il coraggio di approvare la legge sulle lobby
Interessi stranieri
Il primo, fondamentale a prescindere, ma a maggiore ragione per un paese con una storia come quella italiana, è quello sottolineato dal deputato di Fratelli d’Italia, Federico Mollicone, a inizio settimana e ribadito ieri: «Non ci sono riferimenti a chi ha rapporti o rappresenta Stati esteri, tema posto anche dai colleghi Prisco e Montaruli in commissione. Riteniamo sia necessario garantire un meccanismo come il Foreign Agents Act negli Stati Uniti che garantisca la trasparenza e la legalità nei confronti di chi porta avanti interessi stranieri in cambio di finanziamenti».
L’opposizione si è astenuta anche per questo: «Il nostro emendamento è stato bocciato, anche dal centrodestra, mentre per esempio si ipotizzava anche di regolamentare i rappresentanti religiosi», dice Mollicone, «eppure abbiamo assistito a diversi episodi di influenza di agenti stranieri privati e pubblici, come l’incontro organizzato del M5s in parlamento con il governatore dello Xinguang».
Così mentre il Copasir, il comitato per il controllo sui servizi segreti, a ogni possibile operazione di investimento straniero in Italia lancia un allarme rosso, i parlamentari possono avere tutti i rapporti che vogliono con rappresentanti di interessi stranieri, il senatore semplice Matteo Renzi, membro del board del Future Investment Initiave Institute dell’Arabia Saudita, compreso. Una lacuna profonda per un paese tradizionalmente terra di frontiera geopolitica e che si prepara a decidere su alcuni grandi dossier economico-finanziari - basta a guardare ai potenziali investitori su Tim, sauditi, americani o francesi che siano.
Definizione ristretta
Dalla definizione di decisore pubblico, poi, sono esclusi gli alti dirigenti con potere di firma, fanno notare dall’alleanza Lobby4Change, composta da 32 organizzazioni che si battono per la trasparenza dei processi decisionali. Sarebbe come se un commissario europeo dovesse rendicontare tutti i suoi incontri, mentre i suoi capi di gabinetto e i suoi alti funzionari che seguono concretamente i dossier non avessero alcun obbligo, solo per fare l’esempio delle istituzioni europee dove la trasparenza, con tutti i suoi anche pesanti difetti, è ampiamente rodata. Secondo l’associazione è un’esclusione non comprensibile «soprattutto in vista dell’attuazione del Pnrr, queste figure giocheranno un ruolo importante in processi decisionali che impattano sulla vita dei cittadini».
Esclusi anche i consiglieri provinciali, grazie a un emendamento di Federico Fornaro di Leu, approvato da governo e maggioranza.
Fornaro giustifica la decisione dicendo che la maggior parte dei consiglieri delle province «sono sindaci di piccoli comuni». E che l’elenco dei decisori «è già molto ampio». Le province, però, mantengono competenze che vanno dalla sicurezza stradale ai centri per l’impiego e, come gli altri enti locali, avranno un ruolo nella gestione dei fondi del Pnrr.
I parlamentari
C’è poi un’altra mancanza abnorme, riconosciuta dallo stesso Silvestri: nessun limite o quasi. alle revolving doors. Il parlamentare può diventare lui stesso un lobbista appena termina il mandato, come gli esperti di cui si avvale l’amministrazione pubblica. Un periodo di congelamento di un anno è previsto per i soli membri del governo: una bella confessione del parlamento su quanto autovaluti il peso degli eletti rispetto ai membri dell’esecutivo.
Il salva Confindustria
Confindustria, poi, grazie a un’attività di lobbying – ancora non regolamentata, ovviamente – ha trovato sponda in Italia Viva e nella Lega per ottenere di non essere riconosciuta tra i portatori di interesse. Lo stesso vale per le organizzazioni sindacali e per quelle religiose. Tanto che Lobby4Change parla di una legge a due velocità che «finirà inevitabilmente per privilegiare gli attori più influenti sul campo» e pure per minare gravemente la solidità e la legittimità delle norme sulla trasparenza.
Il comitato di sorveglianza
C’è, infine, una questione apparentemente tecnica, su cui si concentrano le critiche. A monitorare il rispetto della legge sarà un comitato di sorveglianza composto al vertice da due magistrati, di Cassazione e Corte dei conti – per diversi critici una chiara deriva giustizialista - e un membro del Cnel. Il comitato lavorerà gratuitamente sotto l’ombrello dell’Antitrust, l’authority per la concorrenza, ma i controllori non sono esperti già in forze all’Antitrust. L’articolo 11 bis, aggiunto in extremis ieri, prevede che «In ragione delle nuove competenze attribuite all’Autorità garante della concorrenza e del mercato ai sensi della presente legge, la pianta organica della medesima autorità è incrementata, in una misura comunque non superiore alle 30 unità».
Ora il Senato avrà la possibilità di rimediare o di affossare per la novantasettesima volta il tentativo di mettere ordine nell’attività lobbistica di cui sono ospiti professionali i ristoranti del centro di Roma.
© Riproduzione riservata