- Restare lontani per molto tempo dal governo oppure arrivarci per la prima volta comporta sempre un prezzo da pagare.
- Il grave scivolone istituzionale di Donzelli e Delmastro e le dimissioni di massa nel gabinetto di Adolfo Urso sono pezzi diversi di una stessa storia.
- Dopo aver ingoiato il rospo della continuità istituzionale, invece di aprirsi a nuove forze e risorse provenienti dall’esterno, i ministri si siano ripiegati sui propri partiti nella scelta dei membri del sottogoverno.
Restare lontani per molto tempo dal governo oppure arrivarci per la prima volta comporta sempre un prezzo da pagare.
Una regola che vale anche per il governo Meloni, le cui difficoltà emergono con prepotenza nelle ultime settimane tra il grave scivolone istituzionale di due membri importanti della maggioranza come Giovanni Donzelli e Andrea Delmastro sulle intercettazioni dei condannati al 41 bis e le dimissioni di una porzione importante dello staff del ministero delle Imprese e del made in Italy guidato da Adolfo Urso.
I due fatti sono diversi tra loro per rilevanza politica, molto più grave il primo e di taglio amministrativo il secondo, ma entrambi segnalano le difficoltà di Fratelli d’Italia nel rapportarsi con esperienza e maturità al governo.
La maggioranza, come spesso accaduto in questi mesi, si trova intrappolata in una contraddizione. Meloni, per insediarsi senza troppe difficoltà al governo, ha scelto la via del patto con l’establishment, della continuità con Mario Draghi, sia in termini di scelte che di ruoli ministeriali.
La tranquillità con l’Unione europea è arrivata con una prudente legge di bilancio, con la prosecuzione del Pnrr e il mantenimento delle sue strutture e anche con la scelta di persone nella macchina amministrativa in grado di fornire rassicurazioni a istituzioni nazionali e sovranazionali.
Naturalmente, però, gli appetiti dei partiti e, in particolare, del partito del Presidente del Consiglio, forte nei consensi e affamato di governo dopo un decennio di sola opposizione, sono tornati presto a farsi sentire.
Tanto che oggi l’esecutivo, visto con la cartina delle relazioni del sottogoverno, appare un ircocervo in cui si incrociano la nuova destra della generazione Meloni, la vecchia destra degli Urso e dei La Russa, e pezzi di un consolidato establishment oramai privo di colore.
Se si guardano i gabinetti dei ministeri questa mescolanza è molto evidente, poiché a esponenti politici e militanti di partito cooptati nelle stanze del governo per onorare le promesse politiche si accompagnano tecnici che hanno vissuto altre stagioni, quella di Draghi o ancora quella della grandi coalizioni.
Se questo schema ha retto per i primi mesi, oggi le forze della maggioranza sentono l’odore del sangue, una tornata di nomine molto ricca, e iniziano ad agitarsi.
In alcuni casi, come in quello del ministero di Urso, la divergenza di vedute tra tecnici e politici, di fronte alla buccia di banana del prezzo dei carburanti e dello sciopero dei gestori, è deflagrata nelle dimissioni di una parte del gabinetto del ministro.
In altri un lungo braccio di ferro, come quello tra Giorgetti e Meloni per il direttore generale del Tesoro, ha portato alla sostituzione, in punta di regole dello spoils system, degli uomini di alta amministrazione scelti da Draghi.
Anche per questo delicato equilibrio e questi compromessi l’avvio della macchina del governo è stato particolarmente lento, con staff ministeriali che devono ancora essere completati e con una presidenza del Consiglio ancora molto spoglia, sul piano dei consiglieri, rispetto alla consuetudine italiana.
Magari Meloni e i suoi ministri hanno l’obiettivo di fare meglio e con meno risorse oppure c’è invece una certa difficoltà della maggioranza a costruire un rapporto con specialisti, manager e professionisti che possano aiutare i membri politici del governo.
L’impressione è che dopo aver ingoiato il rospo della continuità istituzionale, invece di aprirsi a nuove forze e risorse provenienti dall’esterno, i ministri si siano ripiegati sui propri partiti nella scelta dei membri del sottogoverno.
I candidati non eletti, i militanti e gli ex deputati coinvolti negli organi di governo sono molti, mentre gli esterni al mondo della politica coinvolti nell’amministrazione sono pochi, molti meno del passato.
Si potrebbe obiettare che essendo quello della destra un governo politico, dopo molti anni di coalizioni parlamentari e governi tecnici, sia fisiologico un ritorno della politica nell’amministrazione.
Ciò è vero, ma solo in parte. Tutto questo sarebbe molto positivo infatti se i partiti di maggioranza avessero un rapporto con la società, se ci fossero delle forme di cursus honorum oppure istituzioni, come fondazioni e think tank, in grado di fornire una classe governante nuova anche per le posizioni di governo non strettamente politiche, tuttavia per i partiti in questione questa catena che dovrebbe raccogliere competenze, personalità, idee da fuori per portarle dentro il governo è molto sottile e debole.
Questa scarsa permeabilità con l’esterno rappresenta un duplice rischio. Da un lato aumenta la facilità che i conflitti tra i pochi tecnici e i tanti politici esondino in scandali, dimissioni, conflitti e irregolarità, dall’altro indeboliscono le forze della maggioranza, che dopo una vittoria così piena avrebbero dovuto cogliere l’opportunità per aprirsi di più ad una serie di categorie, esperienze, gruppi esterni alla politica al fine di raccogliere nuove idee e costruire una nuova élite di governo a destra.
L’impressione è che ciò avverrà soltanto quando le forze di maggioranza entreranno in affanno, ma allora sarà troppo tardi per recuperare.
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