- Diffusa e grande è la confusione sotto il cielo delle regole e delle istituzioni.
- Si dovrebbe sempre chiedere a chi parla/scrive di tematiche istituzionali-elettorali quali libri/articoli scientifici abbia letto, quali sono gli autori a sostegno delle sue analisi e valutazioni.
- Fare pulizia terminologica per riportare il dibattito sui binari solidi e rigorosi della Scienza politica.
Caro direttore,mi accingo, ancora una volta senza esitazione di sorta, ad assolvere al missionario compito – di questi tempi assi arduo e scomodo – di sgomberare il dibattito pubblico dai detriti dell’ignoranza, dalle macerie delle culture politiche degenerate ed estinte, e dalle trappole della manipolazione per riportalo sui binari solidi e rigorosi della scienza politica.
Mi sento obbligato a cominciare esponendo le mie credenziali, forse un’aggravante. Per 43 anni ho insegnato Scienza politica nell’Università di Bologna. Ho tenuto anche corsi in università straniere da Washington D.C. a Los Angeles, da Harvard a Madrid, da Oxford a Natollin (Polonia).
Ho maturato esperienza e competenza nell’ambito dei Sistemi politici comparati. Ho scritto almeno cinque volumi specificamente in materia più un prezioso (sic) libretto sui sistemi elettorali. Sono particolarmente orgoglioso di Restituire lo scettro al principe. Proposte di riforma istituzionale (Laterza 1985) dove, a scanso di equivoci che persistono, il principe non è il capo del governo, ma il cittadino sovrano già identificato da Lelio Basso.
Nel dicembre 1985 il libro fu presentato a Torino da Norberto Bobbio e Pietro Ingrao (nel pubblico ricordo mia mamma molto emozionata). Ho scritto articoli accademici usciti in diverse lingue: inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese, da ultimo, cinese. Ho pubblicato più di un centinaio di articoli di divulgazione su quotidiani e settimanali (ricordo con piacere Rinascita). Dal novembre 1983 al 1° febbraio 1985 ho fatto parte della commissione Bozzi per le Riforme istituzionali. Fra i molti colleghi parlamentari ricordo Roberto Ruffilli, capogruppo della Dc, Pietro Scoppola, Beniamino Andreatta, Sergio Mattarella, Mario Segni, Gino Giugni, Stefano Rodotà, Augusto Barbera, Eliseo Milani (con il quale scrivemmo la relazione di minoranza della Sinistra indipendente del Senato), provenienze e competenze diverse, ma nessuno tanto sprovveduto quanto i contemporanei.
Nell’estate-autunno 2016 sono stato presente, spesso protagonista, in circa ottanta iniziative per sostenere il No al plebiscito costituzionale indetto e cavalcato da Matteo Renzi. Da ultimo sono frequentemente presente nel dibattito con tweet, spero puntuti e chiarificatori, nel complesso, temo, inefficaci, ma non ho ancora avuto il coraggio di chiedere a chi parla/scrive di tematiche istituzionali-elettorali quali libri/articoli scientifici abbia letto, quali sono gli autori a sostegno delle sue analisi e valutazioni.
Già durante l’esperienza referendaria mi resi tristemente conto di quanto diffusa e grande fosse/sia la confusione sotto il cielo delle regole e delle istituzioni. Da allora si è estesa e fatta persino più spessa.
Su un solo punto, posso, credo, cantare vittoria. Sembra che quasi tutti i politici e i giornalisti abbiano imparato che in nessuna democrazia parlamentare, mai il governo è eletto dal popolo. In verità neanche nelle democrazie presidenziali e semipresidenziali il popolo elegge il governo, ma soltanto il presidente che poi con modalità varie formerà e trasformerà quasi a piacimento il suo governo, cambiando i suoi ministri, mai previamente presentati agli elettori.
Bicameralismo “perfetto” non è
Con il taglio, ovvero la riduzione del numero dei parlamentari è tornato in auge il bicameralismo perfetto che tale non è. Perfetto è aggettivo che si riferisce al funzionamento, mentre i bicameralismi esistenti, quello italiano compreso, possono essere paritari o differenziati secondo criteri appositi.
Non parlerò delle leggi elettorali, quelle che portano i rappresentanti in parlamento, se non per menzionare due notissime firme del Corriere della sera, la prima che concluse un suo denso articolo con lo scoop che sarebbe tornato un sistema proporzionale a turno unico, la seconda che, riflettendo sulle elezioni parlamentari francesi del giugno 2022 annunciò la probabilità di non pochi ballottaggi con tre o addirittura quattro candidati/e.
Mi limiterò a sottolineare che il ballottaggio non prevede desistenze e non consente alleanze preventive. Invece, praticamente tutte le varianti di doppio turno offrono ampie gamme di opportunità a candidati, partiti, elettori.
Il semipresidenzialismo
L’instabilità governativa essendo notoriamente il più grave problema politico-costituzionale italiano di tanto in tanto qualcuno formula la proposta del presidenzialismo, anatema per la sinistra, ma oggetto largamente non identificato neppure dai suoi proponenti.
Sembra che intorno a Giorgia Meloni abbiano deciso, riportato dal Corriere, che si potrebbe avere il semipresidenzialismo alla francese insieme al voto di sfiducia costruttivo previsto nella Costituzione della repubblica parlamentare tedesca: una combinazione assolutamente e fecondamente europea.
Esultano le cancellerie degli stati membri dell’Unione europea che si interrogavano preoccupati sul tasso di europeismo di Fratelli d’Italia. Via tweet è arrivata la benedizione – «mi auguro ci sia il presidenzialismo. Il mio modello è la Germania – di Giovanni Toti (forse un omonimo, professore di Diritto costituzionale comparato nell’Università della Liguria, non certamente il presidente della regione, ma non ho visto smentite).
Diritto di tribuna
Quod omnes tangit ab omnibus probari debet. Bisogna garantire a molti la possibilità di intervenire nel dibattito sulle regole e sulla loro eventuale riforma offrendo rappresentanza parlamentare.
Irrompe così nel deprimente discorso sulle implicazioni e conseguenze della legge Rosato, il cosiddetto “diritto di tribuna”, ovvero la più o meno graziosa e generosa concessione da parte dello schieramento guidato da Enrico Letta di qualche seggio a Sinistra italiana e ai Verdi in cambio dei loro pochi, ma chi sa talvolta decisivi, voti nei collegi uninominali.
I francesi ne hanno discusso, inconcludentemente per anni. Nei collegi uninominali a causa del sistema elettorale maggioritario candidati di aggregazioni che, complessivamente, potevano raccogliere 6-8 e più per cento di voti su scala nazionale finivano per non vincere mai.
Si pensò di riservare un 10 per cento di seggi per garantire l’ingresso in parlamento di rappresentanti di quelle liste chiamandolo diritto di tribuna. Non se ne fece, giustamente (poiché candidature eccellenti trova-va-no accoglienza da leader intelligenti), niente. La logica italiana, offerta di seggi in cambio di voti, è sostanzialmente diversa da quella francese: ampliare la rappresentanza politico-parlamentare, da suggerire di non ricorrere all’espressione “diritto di tribuna”.
Front runner
Concludo, almeno temporaneamente, criticando l’uso del termine front runner. Negli Usa, front runner è colui/colei che in un affollato campo di partecipanti alle elezioni primarie per designare il candidato/a alla presidenza della Repubblica si trova in testa dopo tre o quattro primarie negli stati.
Il front runner non è il capo di un partito, non il capo del partito più grande, non il leader o il tessitore di una coalizione. Sostanzialmente, è una terminologia che nel contesto italiano non ha senso e comunque, se del caso, oggi la front runner è Giorgia Meloni.
So che questo mio ennesimo tentativo di pulizia e precisione terminologica difficilmente risulterà vittorioso. Pazienza: tornerò su questi e altri termini ogniqualvolta l’uso fattone sarà scandaloso. Nel frattempo, dixi et salvavi animam meam.
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