«Dov’è la famiglia tradizionale in questo paese?» Lilli Gruber incalza senza sconti il portavoce dei pro vita Jacopo Coghe quando, nel salotto di Otto e mezzo, in diretta nazionale su La7, gli ricorda che i valori della destra Dio, patria e famiglia valgono per tutti fuorché per l’attuale classe dirigente di governo.

«La presidente Meloni è separata e con una figlia nata fuori dal matrimonio» per non parlare della «sorella (per sua stessa ammissione) separata in casa dal ministro Lollobrigida» e Matteo Salvini che «ha due figli da donne diverse».

Non che gli italiani si scandalizzino più di tanto, dal momento che di famiglie ne esistono vari tipi (allargate, ricostituite, monogenitoriali o con nonni chiamati a fare da mamma e papà). La coppia eterosessuale con figli, fondata sulla sacra unione del matrimonio che popolava l’immaginario delle pubblicità anni ’80 (quando il papà tornava a casa dall’ufficio per pranzo e la mamma accoglieva tutti, mettendo la pasta al pomodoro in tavola) è ormai caduta in estinzione riservandosi un mero 33 per cento nella classifica nazionale.

E Coghe dovrà mettersi l’anima in pace, perché le famiglie non appartengono allo stato di natura dell’uomo e non sono realtà eterne e immutabili, ma costruzioni sociali, fatte (come storia insegna) di tradizioni inventate e soggette a cambiamenti profondi, anche radicali.

C’era una volta

C’era una volta la famiglia borghese ottocentesca con l’autorità del padre chiamata a disciplinare comportamenti, pensieri e morale di moglie e figli, per non disperdere patrimoni ereditari. Poi, separazioni e divorzi, invecchiamento della popolazione, ricorso a tecniche di fecondazione assistista, coppie dello stesso sesso che hanno ottenuto diritti e riconoscimenti, hanno smantellato tutto questo.

La colpa non è delle donne che non fanno più figli per scelta o per la necessità di non essere licenziate o perché il tasso di fecondità femminile si è abbassato. E a meno che non si voglia sostenere che la famiglia tradizionale si è suicidata perché sempre più coppie eterosessuali ricorrono a cliniche per la fertilità sottoponendosi a una fecondazione eterologa (cioè quella che garantisce maggior successo, visto che la gravidanza si ottiene dall’ovulo di una donna esterna alla coppia, quasi sempre ventenne), l’attuale dibattito sulla gestazione per altri suona davvero paradossale, in un paese in cui si esalta continuamente il ruolo del materno e ci si lamenta del calo demografico.

Perché mai una donna può scegliere di accogliere nel suo ventre l’ovulo di un’altra donna (pagando peraltro migliaia di euro dal momento che le donatrici sono quasi sempre studentesse che donano per denaro) e finire in galera se chiede a un’altra donna di portare a termine una gravidanza, che il suo corpo non accoglie? Non occorre tornare alla Bibbia o ai consoli romani che si scambiavano le mogli in età fertile per generare figli in comune e cementare alleanze, per capire che il corpo delle donne e la loro capacità di generare è tornato al centro del dibattito.

L’estate del 1976

La ministra per la Famiglia, Eugenia Roccella, esorta il personale medico a segnalare alle autorità i casi sospetti di gestazione per altri per facilitare l'intervento della legge. E qualcuno, giustamente, le ricorda che fino a prova contraria, il compito dei medici non è fare delazione ma tutelare la vita delle persone, prestare cure e soccorsi a tutti, secondo quel giuramento universale chiamato “di Ippocrate”.

Sembra passato davvero un secolo da quell’estate del 1976 quando il governo Andreotti autorizzava, con legge deroga, l’aborto terapeutico per quelle donne che a Seveso rischiavano di partorire bambini con malformazioni a causa della nube di diossina sprigionata da un reattore chimico dell’Icmesa.

Oggi si griderebbe all’eugenetica e del resto ogni tanto qualche delirio oscurantista si leva ancora a proposito della legge 194, che dal 1978 ha depenalizzato l’aborto (ammesso entro 90 giorni dal concepimento per tutelare la salute fisica e psichica della donna) e ha permesso la diffusione di metodi contraccettivi, considerati da una vecchia eredità del regime fascista reati contro lo stato e la stirpe.

Una cosa però è certa: dei bambini (non quelli ancora in gestazione, ma quelli già nati) alla politica importa davvero poco. «Noi assistiamo tutti i bambini e non ci mettiamo certo a segnalare i genitori», ha dichiarato Antonio D’Avino, presidente della Fimp, la federazione dei pediatri. Perché anche questo è il compito dei medici. Far venire al mondo e curare tutti i bambini, indipendentemente da come siano venuti al mondo. Denunciare i genitori, è pratica da lasciare agli stati autoritari fondati sulla repressione del dissenso. Ovvero ai regimi, che hanno ben poco da spartire con le democrazie.

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