Una proposta vorrebbe istituire un momento di ricordo per i morti causati dal regio esercito in Africa. L’iniziativa è meritoria, ma non andrebbe dimenticato anche quello che è successo in Slovenia
Su Domani Enrico Dalcastagné ha ripercorso alcune tristi pagine del nostro passato coloniale, segnalando la benemerita idea di una giornata in memoria delle vittime del colonialismo italiano in Africa. Allargherei però l'orizzonte a tutte le vittime provocate dalle nostre imprese belliche di stampo coloniale, e penso soprattutto ai Balcani, là dove il regio esercito ha assunto comportamenti razzisti e compiuto vere e proprie carneficine.
Alle violenze a referto in Libia (100mila vittime su 800mila abitanti: un genocidio) e nel Corno d'Africa (300mila vittime) andrebbero quindi affiancate quelle, egualmente rimosse, compiute in soli due anni sulla popolazione civile montenegrina, croata, greca, albanese e soprattutto slovena.
Dalla nostra memoria collettiva sembra infatti scomparso il ricordo, altrettanto deumanizzante, di oltre centomila civili croati e sloveni rinchiusi tra il 1942 e il 1943 negli sgangherati campi di internamento fascisti: nel solo campo sull'isola croata di Arbe in poco tempo moriranno quasi cinquemila persone, costretti in tende, e non baracche, nel rigido inverno.
Campi di morte
Stando all’ex partigiano e studioso del movimento di liberazione sloveno Tone Ferenc (La provincia italiana di Lubiana, Ismlf, 1994), nella sola provincia di Lubiana vengono «fucilati o come ostaggi o durante operazioni di rastrellamento circa cinquemila civili, ai quali ne vanno aggiunti altri duecento bruciati e massacrati in modi diversi.
Novecento invece i partigiani catturati e fucilati. A sommarsi con le oltre settemila persone, in gran parte anziani donne e bambini, morti nei campi di concentramento in Italia. Complessivamente moriranno più di 13mila persone su 340mila abitanti, il 3,8 per cento della popolazione». A questo drammatico bilancio aggiungeremo l’incendio di tremila case e la distruzione di 800 villaggi.
Che dire di più? In applicazione delle severe disposizioni della “circolare 3c” del generale Mario Roatta, la notte tra il 22 e il 23 febbraio 1942 Lubiana è posta in stato d’assedio e i Granatieri di Sardegna capitanati dal generale Taddeo Orlando rastrellano per settimane con «metodo deciso» migliaia di civili (un quarto degli uomini validi «prescindendo dalla loro colpevolezza» dirà Orlando) e 868 di loro vengono internati nei campi di concentramento.
Altri rastrellamenti avverranno tra il 27 giugno e il 1° luglio – con il fermo di 17mila civili – e dal 21 al 28 dicembre, con l’arresto di oltre 500 persone; molti sono donne, vecchi e bambini. Pochi, i più fortunati, li deporteranno in alcune città del nord Italia.
Ma in questa “strategia della snazionalizzazione” – come l’ha chiamata Davide Conti in L’occupazione italiana dei Balcani (Odradek, 2008) – sono 33mila gli sloveni e i croati internati in duecento lager in Italia e sul posto, a morire di freddo, stenti, tifo e dissenteria (per il generale Mario Robotti erano «inconvenienti igienici»).
Come si legge in una relazione di Roatta al comandante dell’undicesimo Corpo d’Armata Robotti, «si tratterebbe di trasferire, al completo, masse ragguardevoli di popolazione e di sostituirle in posto con popolazioni italiane» (9 settembre 1942). Altri rastrellamenti seguiranno nei centri più importanti del Paese, e gli stessi militari italiani la racconteranno impunemente come un’opera di «bonifica etnica» («Si ammazza troppo poco», dirà Robotti).
«Tra pianti e pianti e pianti»
«Dicono che donne e bambini e vecchi, a frotte, o rinvenuti nei boschi o presentatisi spontaneamente alle nostre linee costretti dalla fame e dal maltempo, sono stati intruppati, e avviati (tra pianti e pianti e pianti) ai campi di concentramento». Lo si legge al giorno 25 settembre 1942 del Diario di don Pietro Brignoli, cappellano militare del secondo reggimento Granatieri di Sardegna.
Tutti i fermati – scrive il tenente dei Carabinieri Giovanni De Filippis in una delle sue periodiche relazioni – «sfilano davanti a una commissione di ufficiali della divisione Granatieri e di confidenti: secondo le indicazioni fornite da questi ultimi, si procede senza altri accertamenti: la parola dei confidenti diventa vangelo. E così 300mila abitanti della Slovenia restano in balìa dei confidenti...» (26 giugno 1942).
Quando i detenuti vengono consegnati al Tribunale speciale di guerra, a reggere la pubblica accusa trovano personaggi come il procuratore generale e funzionario dell’Ovra Carlo Fallace (nella sua requisitoria contro 60 sloveni accusati di insubordinazione, Fallace li definirà «un groviglio immondo di rettili umani striscianti nell’ombra e nel fango») o come il tenente colonnello Enrico Macis (nel 1927 Macis era stato giudice istruttore del Tribunale speciale nel processo contro Antonio Gramsci); dal novembre 1941 al settembre 1943 questo Tribunale sentenzierà la morte di 83 civili e partigiani.
Macis non manca poi di manifestare il suo compiacimento per le deportazioni: come scrive il 26 aprile 1943, «nello scorso anno le autorità militari con apprezzato senso di opportunità avevano rastrellato la città ordinando l’internamento di tutti gli uomini dai 18 ai 35 anni». A Macis e altri la Commissione delle Nazioni unite per i crimini di guerra addebiterà la fabbricazione di false prove a carico di parecchi imputati.
Passata la guerra, Macis otterrà la qualifica di “Partigiano combattente”. Non bastasse, nel 1946 l’ufficio informazioni dello stato maggiore dell’esercito gli commissionerà uno studio sui problemi di carattere giuridico in ordine ai crimini di guerra. Come affidare ad Al Capone uno studio sul consumo illegale di alcolici.
Sempre a Lubiana, la città è attraversata da veri e propri squadroni della morte con licenza di uccidere a vista i “ribelli”. Sono sorprendenti le analogie con gli assalti paramilitari in Sicilia nel 1946-1947 contro cooperative, Camere del lavoro, sindacalisti ed esponenti della sinistra (verranno uccisi ventisette militanti del Pci) quando nell’isola il generale di polizia Ettore Messana – reduce da Lubiana – ricopre la carica di ispettore capo.
Dai metodi criminali dei funzionari di polizia e del magistrato competente traspare l’incapacità degli alti comandi di esercitare il controllo del territorio tramite il consenso. Che fare allora, a fronte del fallimento di una tale assimilazione affrettata e forzata? Ai suoi uomini il generale Robotti parla chiaro: bisogna «far coincidere i confini razziali con quelli politici», ovvero disporre la pulizia etnica. Ne conviene l’alto commissario Emilio Grazioli che, in una lettera del 24 agosto 1942, sottopone al ministro degli Interni il suo piano di soluzione del «problema» della popolazione slovena: «distruggendola, trasferendola, eliminando gli elementi contrari».
In totale, 110mila jugoslavi verranno deportati nei campi di concentramento fascisti in Italia; sui traumi da loro patiti non mancano le testimonianze. Slavko Malnar, croato, ex internato a Gonars in Friuli, a Alessandra Kersevan: «Avevo 6 anni e pesavo tredici chili. Con altri bambini cercavamo il cibo nei bidoni della spazzatura. Se trovavamo qualche grosso osso lo spaccavamo per succhiare il midollo. Mia madre era incinta. Mio fratellino è nato il 3 febbraio 1943. È morto qualche mese dopo».
Ad Arbe è anche peggio: Carlo Alberto Lang, capitano medico incaricato di un sopralluogo, segnala che tra il settembre e l’ottobre 1942 in trenta giorni muoiono duecentonove persone, di cui sessantadue bambini sotto gli 11 anni. E al medico provinciale che denuncia i numerosissimi casi di dimagrimento patologico e insistenti epidemie tra gli attendati nel campo di Arbe, il generale Gastone Gambara il 17 dicembre 1942 cinicamente replica quanto fosse «logico e opportuno che campo di concentramento non significhi campo di ingrassamento, in quanto “individuo malato = individuo tranquillo”».
«Gente uccisa senza motivo»
A fronte di una tale feroce deriva, il vescovo di Trieste e Capodistria Antonio Santin (uomo di provata fede fascista) nell’aprile 1943 chiede inutilmente al duce che non si brucino case e villaggi, non si uccidano persone, non siano internati i vecchi, gli ammalati, le donne, le fanciulle, ricordando che «gran parte delle case bruciate rappresentano un’inutile distruzione, che ha seminato l’odio contro il nome italiano».
In una seconda missiva del 2 settembre al segretario di Stato vaticano cardinale Luigi Maglione, Santin scrive: «Villaggi e case incendiate, famiglie disperse, gente uccisa senza motivo all’impazzata, torture e bastonature violente durante gli interrogatori, arresti di massa, campi pieni di internati spesso tenuti in modo disumano (chi parla ha visto con i suoi occhi) hanno seminato odio, amarezza, sfiducia».
Non fosse arrivato l’8 settembre, tutto questo avrebbe assunto le dimensioni del genocidio, quella politica del terrore che, in Slovenia e Croazia più di altrove, era deflagrata, per dirla con Gaetano Salvemini, «nell’omicidio di massa».
Insomma, brandendo il paradigma dell’“italiano buono”, benevolmente assunto dall’opinione pubblica, sui nostri crimini cala l’oblio e l’Italia si auto assolve, cancellando dal senso comune (e dai testi scolastici) la memoria dei nostri omicidi e ogni traccia dei nostri campi di morte.
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