- La leggina che pensiona il direttore del Teatro San Carlo di Napoli, al cui posto andrebbe l’ad Rai, resta in bilico. Il testo c’è. Oggi potrebbe arrivare al consiglio dei ministri.
- La premier Meloni è rimasta in dubbio fino all’ultimo.Teme che, finita l’éra dell’uomo di Draghi, ora nella tv pubblica andrà in onda la guerra per bande fra FdI e Lega per le nuove nomine.
- Il Pd: « Rispettare la scadenza naturale del consiglio d'amministrazione. Siamo contrari a espedienti che minano il pluralismo e la democrazia».
Una chimera, una fatamorgana, una specie di Moby Dick che la capitana del governo intravede all’orizzonte con piacere ma anche con un brivido di paura per le conseguenze nefaste che può portare. Fino alla serata di ieri la leggina che consentirebbe di “liberare” la casella di amministratore delegato in Rai e quindi procedere con l’occupazione di quel posto da parte della maggioranza è rimasta una visione, un punto interrogativo, confermato da fonti di governo («La norma tecnica è pronta»), ma nello stesso tempo smentita da alcuni ministri che fra le carte ricevute in vista del consiglio dei ministri convocato per oggi alle 16, ammettono, «non è arrivato nulla».
Va tenuta in conto anche la variabile di prassi: una norma può entrare in consiglio, ma non uscirne, nel senso di non uscirne subito approvata. Anche perché il tam-tam di palazzo dice che Giorgia Meloni non sarebbe convinta di procedere. La leggina è un decreto che avvicina l’età di pensionamento dei direttori stranieri delle fondazioni lirico-sinfoniche con quella degli italiani, cioè anche i primi dovrebbero lasciare entro i 70 anni («La differenza è incomprensibile e assurda», viene spiegato).
La norma sarebbe subito applicata al sovrintendente del Teatro San Carlo di Napoli, Stéphane Lissner, che lascerebbe – malgré soi – il posto all’ad Rai Carlo Fuortes, che verrebbe accolto a braccia aperte dal sindaco Gaetano Manfredi. E così Meloni sarebbe libera di praticare uno spoil system che per legge non esiste: cioè nominare ad Roberto Sergio, ora a RadioRai, e direttore generale il fratellissimo d’Italia Giampaolo Rossi; con la promessa di una staffetta fra i due, fra un anno: Rossi non può essere nominato subito in quanto componente del precedente cda.
Possibile, congelata, scongelata
L’approvazione della norma viene data per «possibile» già oggi. Ma in serata l’agenzia Agi (diretta fino a poche settimane fa dal portavoce di Meloni Mario Sechi) batte «norma congelata». E se arriverà davvero sul tavolo dei ministri resta un rebus fino a tarda giornata. C’è confusione.
Perché Meloni e il titolare della cultura Gennaro Sangiuliano sanno che con questa mossa si risolveranno un problema – gli attacchi di Fdi e Lega al cda Rai, e l’ingresso di un uomo loro ai vertici dell’azienda – ma se ne potrebbero aprire altri mille. Primo, Lissner ha fatto sapere che metterà in mezzo una batteria di legali e ventila un ricorso ex art. 700 dal giudice del lavoro; secondo, anzi primo a pari merito, finita l’éra Fuortes, gli uomini di Fdi e Lega litigheranno fra loro sulla spartizione dei posti a cascata. Fin qui l’ad nominato da Draghi è stato il bersaglio comune; di qui in avanti niente più alibi dietro cui nascondere che i conflitti in Rai provengono dall’interno della maggioranza.
Litigi senza tregua. Sulle nomine: Meloni vuole al Tg1 Gian Marco Chiocci, direttore dell’agenzia AdnKronos, Rossi vuole Nicola Rao, direttore del Tg2. Sulle strategie aziendali: ieri Matteo Salvini ha rilanciato l’abbattimento del canone Rai da «ridurre progressivamente fino ad azzerarlo. L’Italia deve darsi l’obiettivo di una tv innovativa e che non pesi sulle tasche dei cittadini, può stare in piedi con gli incassi pubblicitari». Falso, gli ha replicato il capogruppo Pd in Vigilanza Rai Stefano Graziano: «Salvini ne spara una al giorno. Ci dovrebbe anche dire come intende procedere. Vorrebbe finanziare il canone con i fondi dello Stato? Oppure vuol far credere che una azienda imponente come la Rai possa sussistere senza il canone?», insomma «toglierlo dalla bolletta è far morire la Rai». La risposta del Pd è la stessa che darebbe un qualsiasi Fratello d’Italia.
La rissa sulle nomine
La Rai, poi, è un tassello della prossima tornata di nomine. Fra ministri c’è maretta su chi farà il comandante generale della Guardia di Finanza, come ha scritto ieri il nostro giornale. L’uscente Giuseppe Zafarana diventerà presidente dell’Eni, al fianco dell’ad Claudio Descalzi. Ma sul suo successore è in corso uno scontro all’arma bianca fra il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, da una parte, e il sottosegretario con delega ai servizi Alfredo Mantovano e il ministro della difesa Guido Crosetto, dall’altra. Il leghista vuole il generale Umberto Sirico. I due Fdi invece Andrea De Gennaro, fratello di Gianni, capo della Polizia nei giorni di Genova 2001 e di lì dirigente di Leonardo. Ieri palazzo Chigi invece è riuscito a ufficializzare che il magistrato Carlo Alberto Manfredi Selvaggi guiderà il coordinamento della Struttura di Missione Pnrr.
La decisione sulla Rai entra dunque oggi in cdm, ma non si sa se ne esce approvata. Anche se per viale Mazzini il tempo è una variabile importante: rimandare la decisione finale sui vertici significa smetterla con la favoletta della colpa dei vertici se le decisioni strategiche dell’azienda rallentano. Non la stesura del contratto di servizio spetta al ministro del Made in Italy Adolfo Urso, ma c’è il piano industriale e la definizione dei palinsesti. C’è ancora tempo per fare tutto. Solo che il tempo per prendersela con gli altri, per Meloni, è scaduto. E da un bel po’.
Il Pd promette battaglia
In serata il Pd avverte che darà battaglia, con un comunicato di Graziano e Sandro Ruotolo, responsabile delle tv in segreteria: «Ci opporremo a una norma ad personam che consenta a questo governo di cambiare i vertici della Rai senza avere una minima idea di visione di ciò che deve essere la più grande azienda culturale italiana. La legge non prevede spoil system, e noi vogliamo rispettare la legge dello Stato italiano, e non le leggi ad personam della destra al governo».
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