Cinque anni fa, in questi giorni, Giuseppe Conte, che era stato scelto per presiedere il governo da Di Maio e Salvini, abbandonò le vesti dell’Avvocato del Popolo e abbracciò quelle del Coniglio Mannaro, pronto ad azzannare. Nel caldo del pomeriggio, il 20 agosto 2019, l’aula del Senato sembrava un’arena, una plaza de toros, dove Conte metteva paternamente la mano sulla spalla di Salvini durante il suo discorso e intanto lo infilzava. Il capo della Lega aveva buttato giù il governo, immaginando per sé una passeggiata elettorale trionfale e invece si ritrovò scaricato.

Nacque il governo Conte II, in cui il premier uscente ritornò a palazzo Chigi con il voto e i ministri del Pd al posto di quelli della Lega, in nome del programma definito «per un nuovo umanesimo». Qualunque cosa volesse dire, ebbe la benedizione di Beppe Grillo che convocò lo stato maggiore grillino, i Di Maio e i Di Battista, nella casa marina di Bibbona per sostenerlo (come fece poi nel febbraio 2021 per Mario Draghi).

Identità da costruire

Oggi Conte e Grillo sono ai ferri corti, alle carte bollate, alle minacce di scissione. Può darsi che sia un gioco delle parti, non sarebbe la prima volta. Il grande assente della disputa è la politica. Le fazioni interne al Movimento e quelle esterne, i guru editoriali che lo condizionano, si dividono, litigano su tutto, sulla proprietà del simbolo, sul ruolo del garante, sul numero dei mandati e su altre quisquilie procedurali, ma non sulla politica.

Eppure il Movimento 5 Stelle è in crisi soprattutto sulla sua identità, sulla sua natura originaria di movimento né di destra né di sinistra, nato per smantellare quel che restava degli antichi schieramenti, con il corollario di non potersi alleare con nessuno, per non fare una scelta di campo, o di allearsi con chiunque, a condizione di occupare la posizione di guida, come accadde con il governo Conte I e il Conte II.

Le elezioni del 2022 e la vittoria di Giorgia Meloni a destra hanno aperto al nuovo Movimento di Conte la prospettiva di guidare l’opposizione contro la premier di FdI e di conquistare il primato a sinistra, con il Pd a fare da vassallo, portatore d’acqua del «punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste».

La strategia è sembrata vincente, presupponeva un Pd allo sbando e ininfluente, pronto a consegnarsi all’ex premier da un alto e al polo di Renzi-Calenda dall’altro, è stata sostenuta da un partito trasversale politico, giornalistico, presente anche nel Pd. Ma questo progetto si è infranto.

Domani Elly Schlein festeggia 18 mesi dall’elezione a segretaria del Pd il 26 febbraio 2023, il suo successo più importante non è elettorale, ancora da consolidare, ma politico, aver strappato il Pd a questo infelice destino di subalternità. Il Pd di Schlein senza complessi di inferiorità, convinto di sé stesso, in grado di esercitare la leadership in prima persona senza affidarla ad altri, costringe i partiti dell’opposizione a dire da che parte stanno.

È questo che manda i Cinque stelle in testacoda, come si è visto a Bari, dove prima sono stati sconfitti elettoralmente, fermandosi al 6 per cento e a due consiglieri eletti (alle politiche del 2022 avevano preso il 27,8), e ora faticano a entrare nella giunta di Vito Leccese.

Alla ricerca dell’alternativa

E come si vede in Liguria, dove le trattative su Andrea Orlando candidato presidente di regione sono più difficili del previsto. Ma tutto fa pensare che si concluderanno in modo positivo, come già accaduto in Umbria e in Emilia Romagna.

Alla festa dell’Unità di Reggio Emilia Conte si confronterà con il candidato del Pd Michele De Pascale e stasera la presidente della regione Sardegna Alessandra Todde dibatterà con Pier Luigi Bersani.

La tenace costruzione di una coalizione alternativa alla destra meloniana va avanti, ma scuote il Movimento 5 Stelle. E apre il resto del sistema politico a operazioni finora inimmaginabili. Per Meloni, ma anche per Salvini, c’è un nuovo terreno di caccia possibile, l’elettore di M5s deluso dall’alleanza a sinistra: si spiegano così alcune effusioni degli ultimi giorni.

Per i cultori del Movimento duro e puro delle origini la battaglia per tenere M5s lontano dal Pd è un regalo indiretto che si fa alla premier: senza un’altra coalizione non c’è alternativa alla destra che governa il paese.

Ma chi nel movimento pensa a un’alleanza stabile di centrosinistra, deve avere la forza di fare questa battaglia e deve darsi una identità che non sia la fotocopia degli altri partiti del centrosinistra, a cominciare dal Pd. Senza le ambiguità del passato e senza ricorsi al notaio, che sono il veleno che ha distrutto la politica.

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