La perizia chiesta dai famigliari delle vittime all’ingegner Paolo Rugarli ricostruisce la genesi della tragedia del 2018: «Si resta increduli alla idea che il ponte sia potuto crollar così, semplicemente, perché nessuno per 50 anni ha fatto praticamente nulla di serio per contrastare il degrado»
- La perizia chiesta dai famigliari delle vittime della tragedia del ponte Moranti, nel 2018, arriva a conclusioni analoghe a quella disposta dal giudice per le indagini preliminari di Genova appena depositata ma suggerisce anche una interpretazione.
- Per decenni dentro Autostrade per l’Italia ha prevalso una cultura ingegneristica che accettava come inevitabile il degrado delle opere ma aveva la presunzione di prevedere esattamente quando e cosa sarebbe successo.
- La presunzione era eccessiva, e nel 2018 il ponte Morandi è crollato uccidendo 43 persone.
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«Si resta increduli alla idea che il ponte sia potuto crollar così, semplicemente, perché nessuno per 50 anni ha fatto praticamente nulla di serio per contrastare il degrado che lentamente ma costantemente ha portato il sistema bilanciato 9 alla rovina».
La perizia chiesta dai famigliari delle vittime della tragedia del ponte Morandi, nel 2018, arriva a conclusioni analoghe a quella disposta dal giudice per le indagini preliminari di Genova appena depositata ma suggerisce anche una interpretazione: per decenni, quando la società era pubblica e poi quando è stata privatizzata, dentro Autostrade per l’Italia ha prevalso una cultura ingegneristica che accettava come inevitabile il degrado delle opere ma aveva la presunzione di prevedere esattamente quando e cosa sarebbe successo. La presunzione era eccessiva, e nel 2018 il ponte Morandi è crollato uccidendo 43 persone.
La perizia dell’ingegner Paolo Rugarli, che da due anni è il consulente tecnico di parte per le famiglie delle vittime, entrerà nel processo dopo la conclusione delle indagini, ma offre già informazioni utili anche per il dibattito intorno alla revoca della concessione ad Autostrade (o per i futuri cambi di azionariato per sostituire i Benetto).
Il giudice stabilirà le eventuali responsabilità penali, ma quelle tecniche secondo Rugarli sono tante e durano quarant’anni. Quello che è successo il 14 agosto 2018, cioè il cedimento della pila 9 del ponte, non è un disastro causato «dalla singola azione serrata di un individuo immerso in un contesto normativo complesso e indotto o costretto a prendere decisioni errate in un tempo ristretto» ma qualcosa di simile all’esplosione della centrale nucleare di Chernobyl nel 1986, una catastrofe «propiziata da un vasto e apparentemente assai rigoroso sistema di regole e organizzazioni che in realtà era profondamente disfunzionale».
La costruzione del ponte Morandi termina nel 1967, ma già nel 1978 l’ingegner Riccardo Morandi ha dubbi sul fatto che la struttura dei piloni permetta di monitorare davvero lo stato di deterioramento delle strutture di sostegno: i cavi di acciaio principali sono immersi dentro cemento armato e circondati da altri cavi di supporto anch’essi nel cemento. Cosa succeda al cavo principale non si sa, lo “scafandro impermeabile” intorno ai trefoli rendeva difficile «l’esatta determinazione del grado di corrosione».
Il degrado che nessuno misura
Lo stesso Morandi nel 1981 suggerisce analisi a raggi X che Autostrade non considera fattibili, dieci anni dopo, nel 1991, l’azienda usa quelle riflettometriche Rimt, impulsi ad alta frequenza che dovrebbero restituire informazioni su ciò che non è possibile osservare a occhio nudo.
Un metodo imperfetto che però l’azienda si fa bastare per anni, nonostante già nel 1985 la relazione del capo della manutenzione di allora, Gabriele Camomilla, registri «porzioni di calcestruzzo pericolanti negli stralli della pila 9», quella che sarebbe poi crollata nel 2018.
Nel 1993 una stranezza sospetta, nota Rugarli nella perizia: Autostrade analizza tutti gli stralli del ponte, ma non quelli dal lato mare “più apparentemente esposto all’azione dell’aria marina” e dunque all’acqua che può infiltrare il cemento armato e spaccarlo. Vengono rafforzate la pila 10 e la 11, ma non la 9.
Il professor Francesco Martinez y Cabrera, allievo di Morandi, coordina gli interventi sulla pila 11 e osserva che «la condizione limite per la pila 9 viene stimata intorno al 2030, tale valore viene interpretato come tempo di rivalutazione dello stato della struttura». Quindi entro il 2030 servirà della manutenzione, ma il ponte crolla prima.
Poi le Autostrade vengono privatizzate, il controllo passa alla famiglia Benetton, ma l’approccio al ponte non cambia. Per anni il tema viene quasi dimenticato, torna nel 2010: la perizia dell’ingegner Rugarli riporta un verbale del Comitato completamento lavori nel quale si discute una relazione dell’ingegner Gennarino Tozzi, responsabile delle nuove opere.
Rugarli osserva che l’allora amministratore delegato Giovanni Castellucci “stranamente” dice che «la soluzione risolutiva sarebbe quella di anticipare gli interventi di rinforzo strutturale degli stralli dei residui dei due sistemi bilanciati».
Ufficialmente non ci sono problemi urgenti, l’unica scadenza temporale nei documenti di Autostrade è quel 2030 entro il quale porsi il problema, ma Castellucci chiede di intervenire subito.
La perizia non trova elementi per dimostrare che Castellucci sapeva qualcosa che gli altri non sapevano, si limita a indicare che tutti avevano elementi per preoccuparsi ma nessuno ha mai parlato esplicitamente di ipotesi di crollo del ponte, si trova traccia esplicita del pericolo soltanto in un documento del 2013 che prevede tra i possibili rischi per l’azienda il «crollo del viadotto Polcevera per ritardati interventi di manutenzione», al processo le difese dei manager diranno che si tratta di uno di quei rischi puramente teorici da scongiurare attraverso gli interventi già disposti, l’accusa sosterrà che era invece una minaccia concreta che non è stata affrontata.
L’ultima occasione sprecata
«In più di 50 anni nessuno all’interno di Aspi e delle controllate ha mai messo esplicitamente nero su bianco alcun timore per le recisione dei trefoli dei cavi primari», osserva stupito l’ingegner Rugarli, anche se con il senno di poi di ragioni per farsi almeno la domanda ce n’erano parecchie.
Nel 2015 c’è “l’ultima occasione sprecata”, un incarico conferito a Cesi, società esterna al gruppo Autostrade: è la prima volta che un soggetto terzo può indagare sullo stato di salute del ponte Morandi. Cesi conclude che il sistema di procedure di Autostrade era «adeguato a cogliere l’evoluzione dell’integrità degli stralli». Questo, secondo la perizia di Rugarli, è «un errore grave e ingiustificabile».
Quando poi Autostrade manda al ministero dei Trasporti, vigilante sulla concessione, un progetto per rafforzare comunque i pilastri con sostegni esterni (retrofitting), «i funzionari ministeriali prendono per buono quanto viene loro prospettato», cioè una corrosione tra il 10 e il 20 per cento, incompatibile con i rischi di un crollo.
Anche un altro ingegnere del Politecnico di Milano, Carmelo Gentile, nel 2017 si esprime sul ponte ma senza ipotizzare la corrosione dei cavi primari, tutti guardano a quelli secondari semplicemente perché sono gli unici osservabili.
I lavori di retrofitting per la pila 9, quella del crollo, vengono avviati da Autostrade nell’autunno 2017, l’approvazione finale del ministero arriva soltanto a giugno 2018, ma due mesi dopo il ponte non c’è più.
La cultura aziendale
La perizia di Rugarli non arriva a ripartire le responsabilità a livello individuale, fa capire che sarà un lavoro complesso, ma che lascia al processo, si limita a osservare che «senza escludere la possibilità che il motore ultimo dell’abbandono subito dal ponte per tanti anni fosse l’avidità di profitti, che non spetta a questa relazione determinare, resta da comprendere come la altrettanto necessaria inconsapevolezza dei rischi avesse potuto allignare così pervasivamente in uno dei gruppi societari più importanti del paese».
Una domanda molto attuale: poiché quella cultura dell’inconsapevolezza sembra aver attraversato sia la gestione pubblica che quella privata, non è affatto detto che il passaggio della quota di controllo di Autostrade dalla famiglia Benetton a una cordata guidata dalla pubblica Cassa depositi e prestiti sia sufficiente a risolvere tutti i problemi e prevenire future sorprese negative prodotte da quel pericoloso approccio del “tutto è misurabile, tutto è prevedibile” che ha contribuito a creare le condizioni per la tragedia del 2018.
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