Il 23 novembre 1980 la terra trema: muoiono in tremila tra la Campania e la Basilicata. Per la ricostruzione si investirono 64 mila miliardi, ma finirono in sprechi e connivenze
- “Il terremoto come occasione di sviluppo” fu una menzogna. Speranze, voglia di riscatto, desiderio di un futuro migliore: tutto ucciso dai decenni della ricostruzione. Il più grande scandalo italiano.
- Soldi, una montagna di soldi. 64mila miliardi di lire, una cifra che la Corte dei Conti tradusse in euro nel 2008, 34 miliardi dell’epoca. Politici locali, sindaci, amministratori, tutti volevano una loro fetta, anche in quei comuni dove le scosse non erano arrivate.
- A documentare sprechi assurdi, progetti falliti, connivenze, anche due Commissioni parlamentari. A fare la parte del leone le imprese del Nord. Poi i politici, alla fine vengono i camorristi.
Quarant’anni dopo le ferite sono ancora aperte. Il ricordo delle vittime, che riposano in lunghe file nei cimiteri con le tombe che hanno tutte la stessa data della morte, è ormai svanito.
Ventitré novembre 1980, ore 19,32, la terra trema lungo l’Appennino meridionale. I sismografi impazziscono: nono grado della Scala Mercalli. Irpinia, Basilicata e paesi di montagna del Salernitano, vengono rasi al suolo. Muoiono in tremila. Crepano nelle loro case di tufo e nei paesi senza piani regolatori quelli che Domenico Rea chiamerà “gli emarginati, i clandestini della storia”. I feriti sono 9mila, i senzatetto 300mila, 600mila gli edifici abbattuti. Uno scenario da guerra.
Lacrime, dolore, e disperazione. E poi la grande illusione. “Il terremoto come occasione di sviluppo”. Arriveranno i soldi, ricostruiremo case e paesi, ci sarà finalmente lavoro per tutti. Speranze, voglia di riscatto, desiderio di un futuro migliore. Tutto ucciso dai decenni della ricostruzione. Il più grande scandalo italiano. L’ultimo, devastante esempio di un uso scellerato della spesa pubblica da parte di una classe politica che negli anni d’oro della Prima Repubblica, sull’uso della spesa pubblica viveva e prosperava.
Chi visse tra le macerie
E’ questo che oggi divide anime e cervelli tra l’Irpinia e la Basilicata, il giudizio sull’occasione mancata. La memoria di fatti che hanno irrimediabilmente segnato il destino di questa parte del Paese, ipotecando il futuro delle generazioni a venire. “La generazione dei prefabbricati”. Quelli che la sera del 23 novembre 1980 non erano nati o erano appena bambini. Una generazione cresciuta in baracche di legno e prefabbricati di amianto. Ragazzi e ragazze che hanno studiato, si sono aggrappati ai libri per capire e giudicare.
Sandro Abruzzese aveva due anni nel 1980. Incontrò il terrore per la prima volta a Grottaminarda (Avellino). Insegna lettere a Ferrara. Ha scritto bei libri, uno molto importante, Mezzogiorno padano.
«Appartengo ai tanti che sono andati via, non solo per il lavoro, ma soprattutto per sfuggire alla cappa opprimente di un ceto politico dominante padrone di tutto. L’uso dei fondi del dopo-sisma ha drogato e accelerato il metabolismo economico campano, compromettendo, nel lungo periodo, le chances future della regione». Franco Fiordellisi, invece, ha deciso di restare. Aveva 11 anni quando la terra tremò al suo paese, Calitri.
«Ho passato un anno della mia vita in un carro bestiame delle ferrovie, quindici in un prefabbricato. Credo che questa esperienza di vita sia stata determinante nel farmi scegliere l’impegno sindacale». E’ il segretario della Cgil in Irpinia. «Oggi affrontiamo la pandemia disarmati. Qui sono stati chiusi gli ospedali. Se mettiamo insieme questo con la disoccupazione giovanile ormai al 55 per cento, la ripresa dell’emigrazione (in 2mila ogni anno vanno via), i bassi livelli della qualità della vita, lo spopolamento dei paesi, e mettiamo tutto ciò a confronto con la spesa per la ricostruzione, possiamo dire che questa terra è stata tradita. Sì, tradita dalla classe politica che dominava in quegli anni, e dalla alleanza tra le sue clientele politiche e gli interessi di gruppi industriali del Nord».
Un fiume di denaro
Un tuffo nel passato è necessario per ricordare le parole entusiastiche di uno dei protagonisti politici dell’epoca, Paolo Cirino Pomicino, “teorico” e anima del Pus, il partito unico della spesa pubblica. «Abbiamo avuto più soldi nel dopo terremoto che nei cento anni di Unità d’Italia».
“’O ministro”, con Antonio Gava, gestiva le risorse a Napoli, Emilio Colombo, ras democristiano della Lucania, nella sua terra, Ciriaco De Mita, Nicola Mancino, Salverino De Vito (che fu ministro per il Mezzogiorno) in Irpinia. Soldi, una montagna di soldi. 64mila miliardi di lire, una cifra che la Corte dei Conti tradusse in euro nel 2008, 34 miliardi dell’epoca.
Per comprendere di cosa stiamo parlando basta un paragone con i soldi del Mes che l’Europa ci mette a disposizione per la pandemia: 40 miliardi.
Furono costruite strade dai costi miliardari a chilometro, sbancate montagne per mettere in piedi venti aree industriali che promettevano 14mila posti di lavoro tra il Salernitano e la Basilicata, finanziati investimenti che poco o nulla avevano a che fare col territorio. Politici locali, sindaci, amministratori, tutti volevano una loro fetta, anche in quei comuni dove le scosse non erano arrivate.
La “Repubblica del terremoto” si estese fino a Foggia, arrivando a contare 7 milioni di abitanti-beneficiari. In quelle aree prese il sopravvento quella che la studiosa Ada Becchi Collidà definì «l’economia della catastrofe».
Ma quando si cominciò a rubare? Subito. Fu Rocco Caporale, un sociologo italo-americano di origini calabresi, a documentarlo nei suoi studi. A fare la parte del leone le imprese del Nord (sui 144 grandi consorzi edilizi intervenuti, solo 75 avevano radici campane o lucane), «i tecnici che hanno preso dal 25 al 35 %. Poi i politici, che hanno preso mediamente il 10 per cento. Alla fine vengono i camorristi».
A documentare sprechi assurdi, progetti falliti, connivenze, anche due Commissioni parlamentari. Quella presieduta da Oscar Luigi Scalfaro, e l’Antimafia. Il loro lavoro è racchiuso in volumi che ormai ammuffiscono nei sotterranei di Palazzo San Macuto. «La ricostruzione fu un fallimento? La risposta è sì, se guardiamo alla enorme cifra investita. Il mio giudizio si basa sullo studio del passato, ma anche dall’osservazione del presente. Dalla inarrestabile marginalizzazione delle aree interne. Dalla loro desertificazione».
Stefano Ventura oggi è uno storico dell’Università di Siena. Figlio di emigranti tornati al paese, Teora, in Irpinia, quando la terra tremò aveva due mesi. Da allora ha dedicato energie e studi per capire gli effetti nel tempo del dopo terremoto. Ha sistemato analisi e giudizi nell’ultimo libro, Storia di una ricostruzione, edito da Rubbettino. Resistere con i libri, lo studio. L’impegno politico. Simone Valitutto nacque sei anni dopo la scossa. Da antropologo indaga il passato, perché «quelle scelte, quell’uso dissennato della spesa pubblica ci hanno costruito per quello che siamo adesso». Da vicesindaco del suo paese, Palomonte, Salerno, guarda al futuro. «Le migliori energie vanno via. Bisogna ricostruire un legame forte di comunità territoriale».
La generazione dei prefabbricati è l’ultima speranza per “l’osso del Sud”. Loro lottano per il futuro. La classe dirigente dell’epoca guarda al passato. Si ostinano a non voler prendere atto di un fallimento epocale. I Pomicino, i De Mita, insieme ai loro tristi epigoni, pretendono di passare alla Storia come statisti. Sulle macerie di un terremoto infinito vogliono l’ultima medaglia. Quella di difensori del Sud.
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