«Per me Roma è Montecitorio, il parlamento è stato la mia prima e più grande casa e lo è rimasto per decenni», ha scritto l’ex presidente della Repubblica. Il Pci e il parlamento. Napolitano è stato il punto di congiunzione, il volto del Pci come altro partito-stato, oltre alla Dc
«L'importante è fare attività politica, non averla fatta», aveva scritto alla fine della sua auto-biografia, citando Plutarco. Aveva voluto intitolarla Dal Pci al socialismo europeo, pubblicata da Laterza. «L’età che ho raggiunto predispone alla testimonianza e alla riflessione... è il tempo del ricordi affettuoso dei tanti con i quali ho combattuto buone battaglie e sostenuto cause sbagliate, e cercato via via di correggere errori, di esplorare strade nuove».
Era il 2005, Giorgio Napolitano era stato nominato senatore a vita, sembrava congedarsi dalla politica attiva. Invece stava per aprirsi il momento più intenso, con l’elezione a presidente della Repubblica, dal 2006 al 2013 e poi, di nuovo, il primo presidente rieletto, fino all’inizio del 2015. Ha fatto politica fino all’ultimo giorno della sua vita. Chiamato in tarda età a rappresentare le ragioni dell’unità nazionale nel decennio della crisi repubblicana, nell’età della sfiducia e della rabbia verso le istituzioni, destinata ad abbattersi anche sulla sua persona.
Quando era ragazzo, al risuonare delle sirene durante i raid aerei americani a Napoli del 1943, si rifugiava nelle grotte di tufo di palazzo Serra di Cassano, trascorreva le notti sotto le bombe, tra i signori e il popolino: «imparai a reagire con molto autocontrollo e con ragionevole fatalismo: un apprendimento che mi sarebbe tornato utile». Sarebbe tornato utile soprattutto nel 2011, quando l’Italia era arrivata a un passo dal fallimento non solo economico, nell’anno in cui si celebravano i 150 anni dalla fondazione dello stato unitario.
Il conte di Cavour
Per mesi Napolitano aveva ripercorso le tappe dell’unità nazionale. Il suo eroe nell'epopea risorgimentale non era Garibaldi o Mazzini, ma un politico, Camillo Benso, il conte di Cavour. Il presidente sembrava identificarsi in quel primo ministro che guidava il cambiamento con «realismo e moderazione», che «seppe governare la dialettica di posizioni e di spinte e padroneggiare quel processo fino a condurlo allo sbocco più avanzato», lo aveva ricordato a Santena dove il conte è sepolto.
Quasi un ricongiungimento con la sua tradizione familiare: il padre, avvocato penalista tra i più prestigiosi di Napoli, era liberale, crociano. Citò Cavour nel discorso più importante, il messaggio al parlamento in seduta comune il 17 marzo, festa dell’unità nazionale. «Reggeremo – in questo gran mare aperto – alle grandi prove che ci attendono, a condizione che operi nuovamente un forte cemento nazionale unitario. Non so quando e come accadrà, confido che accada...».
Nel «gran mare aperto», alla fine del 2011, di fronte alla capitolazione del governo di Silvio Berlusconi e dei partiti, si pose come garante dei tecnici, con un governo presieduto da Mario Monti ma guidato dalla sua ispirazione. Napolitano era stato costretto a commissariare la politica, lui che nel 1945 aveva preso la tessera del Partito comunista e aveva fatto della politica una “scelta di vita”.
Nel partito era cresciuto prima nella ruvida scuola del Pci napoletano di Salvatore Cacciapuoti, poi nella corrente migliorista di Giorgio Amendola, da cui aveva appreso una concezione della politica che è prima di tutto analisi dei rapporti di forza, ostilità verso i movimenti della società e cambiamento dall’alto affidato alle élite illuminate.
In tutto il suo percorso c’è un legame privilegiato con gli europeisti di matrice azionista come Altiero Spinelli, e con il mondo della finanza, come il governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi che gli scrisse nel 1989, poco prima di morire: «Seguo con interesse il vostro travaglio auspicando un esito che ricuperi pienamente alla società italiana ed europea tante forze intellettuali e morali oggi quasi ghettizzate (e il vuoto si sente)».
La sua seconda casa
La sua seconda casa è stata il parlamento. Eletto per la prima volta deputato nel 1953 con 42.956 preferenze nella circoscrizione Napoli-Caserta, rieletto nel 1958 con 31.969 voti. «È nato il 29 giugno 1925 a Napoli, ove risiede in via Monte di Dio, 49», con il numero civico, scriveva di sé sulla Navicella il giovane deputato comunista, con il puntiglio che sarebbe diventato famoso. «Membro della delegazione italiana al Primo congresso studentesco mondiale, che ha luogo a Praga nell’agosto del 1946».
«Per me Roma è Montecitorio, il parlamento è stato la mia prima e più grande casa e lo è rimasto per decenni», scriverà. Il Pci e il parlamento. Il partito e lo stato. Napolitano è stato il punto di congiunzione, il volto del Pci come altro partito-stato, oltre alla Dc. Non estraneo agli aspetti manovrieri e di lotta per il potere. «La politica racchiude in sé molta durezza, necessità, amoralità, molte expendiency, ma non potrà mai rinnegare completamente la parte etica e umanamente rispettabile della sua natura», aveva scritto, con le parole dell’adorato Thomas Mann.
La politica gli ha sempre negato la guida del partito, il Pci, troppo socialdemocratico, troppo liberal, e gli ha assegnato i ruoli più importanti nelle istituzioni: presidente della Camera, ministro dell’Interno, presidente della commissione Affari costituzionali del Parlamento europeo dal 1999 al 2004. Ricordo il suo addio agli elettori nel 2004, in una sala a San Giorgio a Cremano, con emozionata ironia: «Mi avete votato per dieci legislature italiane e una europea. Ora potete riposarvi».
22 aprile 2013
Non c’era il riposo per lui, però. Ricordo il 22 aprile 2013, una pioggia leggera d’autunno e invece era primavera, il campanone di Montecitorio che risuonava come succede ogni volta che un nuovo presidente della Repubblica si prepara a iniziare il suo mandato giurando sulla Costituzione. L’eletto era il rieletto Napolitano, a 88 anni, dopo l’impasse dei grandi elettori sul nome del suo successore.
Dentro l’aula imbandierata a festa stava per andare in scena uno spettacolo memorabile. L’ira del vecchio presidente su chi lo aveva votato due giorni prima per un secondo mandato, al sesto scrutinio, con 738 voti, il 73 per cento, tra questi Silvio Berlusconi che aveva accettato di votare per un ex comunista, a differenza della prima volta, nel 2006, per l’uomo che gli aveva chiesto nel 2011 di lasciare palazzo Chigi.
Alle 17 del pomeriggio sembrava un uomo stanco, si concesse un bicchiere d’acqua e poi cominciò a parlare. Con una requisitoria di quaranta minuti, indimenticabile. «Non prevedevo di tornare in quest’aula da presidente della Repubblica... Questo è il punto di arrivo di omissioni, guasti, chiusure, irresponsabilità». I grandi elettori applaudirono e lo spettacolo si fece surreale. Perché erano loro, i destinatari della reprimenda presidenziale. E più lui li rimproverava e li prendeva a ceffoni, più loro applaudivano. «Sulle riforme ogni sforzo è stato vanificato dalle stesse forze politiche che sono venute a chiedermi di restare. Ho il dovere di essere franco: se troverò ancora sordità non esiterò a trarne le conseguenze. Attenzione, il vostro applauso non induca a nessuna indulgenza!».
Era il Napolitano finale, deluso, arrabbiato. Le riforme per cui si era battuto per decenni non erano arrivate. Il secondo mandato lo aveva visto addirittura chiamato a deporre il 28 ottobre 2014, come testimone nel processo avviato dalla procura di Palermo sulla trattativa stato-mafia durante le stragi del 1993. Il Quirinale era diventato una prigione per lui, come aveva ammesso con una bambina che lo interrogava.
Una fatica di Sisifo, aveva scritto l’amico di una vita Eugenio Scalfari: «Ha fatto il possibile e l’impossibile per compiere e far compiere qualche passo avanti. E questo è avvenuto ma non è stato sufficiente. Questa è la tristezza che Napolitano ha sentito emergere dentro di sé...».
Quando ha firmato le dimissioni e lasciato il Quirinale, il 14 gennaio 2015, tornando a casa, nell’abitazione nel quartiere Monti, a meno di cento metri, lasciò sulla sua scrivania incorniciate le parole scritte su un cartoncino bianco del primo presidente eletto con la Costituzione, Luigi Einaudi: «È dovere del presidente di evitare che si pongano, nel suo silenzio o nella inammissibile sua ignoranza dell’occorso, precedenti, grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore, immuni da qualsiasi incrinatura, le facoltà che la Costituzione gli attribuisce». Era stato il suo giuramento di fedeltà, che non aveva mai tradito.
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