In questo periodo estremamente delicato dal punto di vista dei rapporti istituzionali, su una cosa il Colle non intende transigere: il rispetto delle regole formali di metodo. Fino a quando la riforma costituzionale del premierato non sarà stata approvata, infatti, il ruolo del Quirinale rimarrà quello di vigilare sul rispetto dei vincoli costituzionali e uno di quelli a cui Sergio Mattarella tiene di più riguarda il rispetto delle prerogative del parlamento.

Per questo, a fronte delle molte avvisaglie sul fatto che i prossimi consigli dei ministri sarebbero stati zeppi di decreti legge, l’attenzione del colle più alto si è inevitabilmente alzata, anche perché è da gennaio che il presidente ripete ad ogni occasione opportuna le sue riserve rispetto all’uso e all’abuso di questo strumento. Nel fine settimana, infatti, è stato confermato che c’è «doverosamente una costante attenzione alle effettive ragioni di urgenza».

Tradotto: l’urgenza prevista dalla Carta per procedere con la decretazione deve essere effettiva, non un escamotage per il via libera a provvedimenti da licenziare in via immediata, perché utili in campagna elettorale. Vedi, per esempio, il decreto salva-casa voluto da Matteo Salvini, quello sulla sanità o il dl agricoltura promosso da Francesco Lollobrigida, già modificato dal governo nei giorni scorsi proprio in seguito all’interlocuzione. Ciò non toglie che all’ordine del giorno del consiglio dei ministri di oggi siano previsti ufficiosamente cinque dl, con il rischio di non avere nemmeno sufficienti date utili in calendario per convertirli entro il termine dei 60 giorni.

Per questo, dopo i segnali inequivocabili del Colle – che suggerirebbe di trasformare in disegni di legge da incardinare in parlamento tutti i dl non davvero urgenti – è partito il lavorio per riportare la calma e ridimensionare i testi, così da renderli digeribili sul fronte dell’urgenza. Ci sono però inevitabili rischi a cui la premier Giorgia Meloni va incontro. Rimaneggiare i decreti legge o trasformarli in ddl oppure ancora rallentarli significa, nell’ordine, smentire quanto dichiarato dai ministri più solerti che già vedevano il proprio decreto approvato, complicare la comunicazione elettorale di questo o quel partito e dare implicitamente ragione alle accuse dell’opposizione che critica l’utilizzo eccessivo della decretazione d’urgenza.

Il filo conduttore

Con la consapevolezza della difficoltà dei rapporti politici dentro ogni maggioranza, soprattutto in fase di campagna elettorale, da Colle i segnali sono quelli di un abbassamento dei toni. O meglio, di voler riportare «l’interlocuzione» a un livello tutto interno alle istituzioni e dunque a quella moral suasion tanto cara a Mattarella, che si esercita non necessariamente in via diretta. Nel caso dell’eccesso di decretazione d’urgenza, infatti, le comunicazioni sono avvenute tra gli uffici.

C’è un filo di comunicazione che lega il segretario generale Ugo Zampetti e il direttore dell’ufficio per gli affari giuridici e le relazioni costituzionali del Quirinale, Daniele Cabras, con la controparte a palazzo Chigi, rappresentata dal capo del legislativo, dal segretario generale Carlo Deodato e dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, che è anche il soggetto più politico e stretto collaboratore della premier. Su quest’asse sarebbero corse tutte interlocuzioni, con l’intento di risolvere concretamente il problema a monte per evitare un intervento a valle.

In altre parole, la volontà del Colle è quella di mantenere il livello di interlocuzione su questo tema sul piano tecnico, dove effettivamente ha la sua sede naturale ed è più facile risolvere e limare. Portare la questione su un piano politico e di frizione istituzionale, invece, complicherebbe inevitabilmente il dialogo su un aspetto che ha come fondamento il puro rispetto delle regole costituzionali.

Al netto di questo, tuttavia, è un fatto che esistano in consiglio dei ministri alcune personalità politiche più attente di altre ai richiami del Colle. Tra queste, in particolare il vicepremier Antonio Tajani e il ministro della Difesa, Guido Crosetto, che si sono sempre dimostrati sensibili alle parole di Mattarella.

Tuttavia, riferiscono fonti vicine al Quirinale, alle interlocuzioni intercorse tra esecutivo e presidenza della Repubblica sarebbe stato dato un rilievo eccessivo, parlandone «un po’ troppo a sproposito». I rapporti con la premier, infatti, sono sufficientemente distesi da far sì che non ci siano timori di mancato ascolto. Nel caso in cui qualcuno, in consiglio dei ministri, chiedesse di andare allo scontro anche sulla questione dei decreti legge, la ragionevole certezza è che la prima a intervenire per sedare gli animi sarebbe proprio Giorgia Meloni.

Che la tentazione a sgarrare rispetto al precetto costituzionale sia più forte in campagna elettorale è un dato di realtà conclamato. Tuttavia, non è qualcosa su cui la presidenza della Repubblica intende soprassedere.

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