Dopo un anno di pandemia, pare che oltre al Sars-Cov2 circoli un altro virus: il convincimento che qualunque compressione di libertà e diritti porti più benefici che costi nel contrasto ad esso.
- In pandemia il principio di precauzione prevale su qualunque altro? Maggiori restrizioni non fanno mai male? Le domande sorgono dalla vicenda dell’errato inserimento della Lombardia in “zona rossa”.
L’usuale scarica-barile è in atto, mentre i cittadini, penalizzati dal lockdown ingiustificato, assistono al “teatrino”. Certo è che ogni restrizione deve basarsi su presupposti giuridici, il diritto alla salute non è “tiranno” rispetto ad altri e il principio di precauzione va contemperato con quello di proporzionalità.
- Reputare che in un’emergenza la compressione di libertà porti sempre benefici, come qualcuno dice, considerando così scusabile l’errore in Lombardia, è un’arbitrarietà che può legittimare qualunque restrizione di diritti. Il virus poi passa, ma il metodo resta.
Dopo un anno di pandemia, pare che oltre al Sars-CoV-2 circoli un altro virus: il convincimento che qualunque compressione di libertà e diritti porti più benefici che costi nel contrasto a esso. A causa di un errore, la Lombardia è stata zona rossa per una settimana, con danni per esercenti attività commerciali e non solo. Ma a detta di qualcuno, per precauzione, altri giorni di lockdown non possono che giovare. In epoca di pandemia, il principio di precauzione prevale su qualunque altro, come qualcuno sembra ritenere? In altri termini, sempre meglio maggiori restrizioni, perché male non fanno?
La vicenda Lombardia
Sin dall’introduzione del sistema delle zone di rischio e delle aree di colori diversi, su queste pagine erano stati espressi dubbi: dalla scarsa oggettività del meccanismo dei 21 indicatori, alcuni dei quali non numerici e dal peso indefinito, quindi valutabili discrezionalmente; alla disomogeneità tra le regioni nel rilevare con tempestività dati esatti e completi. Il sistema di inserimento nell’una o nell’altra fascia di rischio si è rivelato ex post peggiore di quanto ipotizzato; invece, è risultato perfetto per rendere ardua la verifica delle responsabilità derivanti dall’erronea classificazione. La vicenda della Lombardia lo sta dimostrando.
Pare siano state conteggiate come ammalate persone che invece erano guarite. A ottobre, una circolare del ministero della Salute aveva disposto che, dopo 21 giorni senza sintomi, un contagiato potesse comunque considerarsi non più infetto, anche se con tampone ancora positivo. Ma, in mancanza di un atto che certificasse la guarigione, nei database sanitari è rimasta l’informazione del numero di ammalati, ai quali peraltro la regione non aveva associato l’indicazione dell’assenza di sintomatologia.
L’incompleta compilazione del relativo campo del report da cui si sarebbe potuta evincere la reale situazione, trasmesso dalla regione alla cabina di regia, ha complicato la scoperta dell’errore e, poi, le sue conseguenze. Il presidente della regione Lombardia ha sollevato fumo sulla vicenda, parlando di problemi nell’algoritmo e nella valutazione da parte della cabina di regia, e rivendicato il merito della rilevazione dell’incongruenza nei dati. Dati che, tuttavia, egli stesso ha validato e trasmesso alla cabina. L’usuale scarica-barile è entrato subito in funzione. Mentre i cittadini, penalizzati dal lockdown ingiustificato, sono sempre più disorientati dall’ennesimo “teatrino”.
A metà novembre, chi scrive lanciò l’allarme su un profilo connesso: per riammettere i contagiati sul luogo di lavoro, le regole (Protocollo governo-parti sociali, 24 aprile 2020) prevedono vi sia un’attestazione della guarigione, ma senza tampone negativo – non richiesto dalla citata circolare del ministero della Salute – quest’attestazione manca. Quindi, da mesi accade che, dopo 21 giorni senza sintomi, una persona è libera di muoversi, ma non di rientrare al lavoro. Se questo allarme fosse stato considerato, forse la vicenda Lombardia si sarebbe potuta evitare.
Dalla diversa classificazione delle regioni, discendono differenti misure limitative di libertà e diritti. È un abominio giuridico credere che tali misure, anche se applicate per errore, come in Lombardia, non facciano comunque male. Eppure questo pensiero pare oggi dominante. Del resto, nella situazione di incertezza del diritto che connota la pandemia sin dall’inizio – tra classificazione in zone di rischio con profili discrezionali che amplificano il margine di errore, decisioni del governo che si intersecano con quelle di presidenti di regione e ricorso ai tribunali – quando vacillano i principi dell’ordinamento, avanza la pericolosa tendenza a ritenere che il principio di precauzione sovrasti tutto.
Precauzione sempre?
Chi reputa che in una pandemia limitazioni di libertà e diritti disposte copiosamente – semmai anche per errore, come per la Lombardia, o con atti carenti di motivazione, come per ordinanze regionali in tema di scuole delle quali abbiamo dato conto – siano sempre giustificate, parte dall’assunto che il diritto alla salute è predominante su tutti gli altri e la precauzione non è mai troppa. Quest’idea è fallace. In primo luogo, il diritto alla salute non è “tiranno” rispetto ad altri. «Tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri» (Corte costituzionale, sentenza 85/2013). In secondo luogo, il principio di precauzione, se pure consente all’autorità di agire cautelativamente in presenza di un rischio anche solo potenziale, non ha portata illimitata, ma va contemperato con i principi di proporzionalità e adeguatezza: nessun provvedimento deve eccedere quanto è opportuno e necessario. E tutti gli interessi coinvolti (salute, iniziativa economica, istruzione ecc.) vanno sempre bilanciati per trovare la soluzione che comporti il sacrificio minore. In altre parole, la mera applicazione del principio di precauzione porterebbe a decisioni arbitrarie o irrazionali, se svincolato da criteri di commisurazione.
Insomma, sbaglia chi dice che una settimana in più di restrizioni in Lombardia non fa mai male: «Non è sempre vero che un divieto totale o un intervento di contrasto radicale costituiscano “una risposta proporzionale al rischio potenziale”, potendosi configurare situazioni e contesti specifici che rendono una tale strategia inopportuna, inutilmente dispendiosa, se non sostanzialmente improduttiva» (Consiglio di stato, sentenza 6655/2019). Quindi, anche in una emergenza, ogni restrizione non può eccessivamente e ingiustificatamente comprimere la libertà dei singoli, ma dev’essere proporzionata al rischio che si corre, dimostrato con dati trasparenti, sottoposti al vaglio degli interessati. Anche così possono evitarsi eventuali errori. Lombardia docet.
L’abitudine alle restrizioni
Chi richiama i principi dell’ordinamento oggi è ritenuto un intralcio nella lotta al virus, e pure peggio. Ma rilevare l’importanza di tali principi è l’opposto del negazionismo: significa attestare che il Sars-CoV-2 esiste e che va combattuto mediante misure congrue rispetto al livello di protezione prescelto, con una valutazione dei vantaggi e degli oneri che da esse derivano. Reputare che in un’emergenza la compressione di libertà porti sempre benefici è dannoso come un virus. È un’arbitrarietà che può legittimare qualunque restrizione di diritti. Ci sono danni derivanti dal virus così come danni derivanti dalle misure di contenimento del virus, se irragionevoli o eccessive. Il virus poi passa, ma il metodo resta, pronto all’uso per la prossima emergenza o, comunque, per qualunque evento spacciato come tale. Il fatto è che le persone si stanno progressivamente abituando alle limitazioni della propria sfera individuale. Rendersi conto di ciò che sta avvenendo quando l’acqua comincerà a bollire, come le famose rane, potrebbe essere troppo tardi.
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