L’unico elemento che accomuna presidenzialismo, semipresidenzialismo e premierato all’italiana è l’elezione popolare diretta del capo dell’esecutivo (nel premierato il primo ministro), che implica la trasformazione della forma italiana di governo dal parlamentarismo a un generico presidenzialismo
Nel programma elettorale di Fratelli d’Italia si trova la proposta del presidenzialismo. Poi, talvolta, Giorgia Meloni si è espressa senza precisione a favore del molto diverso semipresidenzialismo francese. Adesso sembra che il Ministro per le Riforme Istituzionali Maria Elisabetta Alberti Casellati abbia pronta una bozza che configura una forma finora ignota di Premierato.
L’unico elemento che accomuna presidenzialismo, semipresidenzialismo e premierato all’italiana è l’elezione popolare diretta del capo dell’Esecutivo (nel premierato il Primo ministro) che implica la trasformazione della forma italiana di governo dal parlamentarismo ad un generico presidenzialismo.
Non ho abbastanza informazioni per discutere la bozza Casellati. Mi propongo di farlo a suo tempo. Tuttavia, non poche indiscrezioni suggeriscono che a suo fondamento sta il disegno di legge di revisione costituzionale intitolato “Disposizioni per l’introduzione dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri”, primo firmatario Renzi. Un inedito “presidenzialismo” ne sarebbe l’esito concreto.
I firmatari preferiscono sostenere che si propongono il passaggio dalla democrazia rappresentativa ad una non meglio definita democrazia decidente. Questa aggettivazione, sostanzialmente assente nella discussione e nelle analisi delle democrazie realmente esistenti, fu ampiamente propagandata, fra gli altri dall’ex presidente della Camera dei deputati Luciano Violante, dai sostenitori del referendum costituzionale del 2016 poi sonoramente bocciato dagli elettori.
Per definire la sua proposta costituzionale in numerose occasioni, per lo più senza essere contrastato e corretto, Renzi ha fatto ricorso alla nient’affatto originale espressione Sindaco d’Italia, inventata più di dieci anni fa da Mario Segni e mai precisata. Non approfondisco il problema, che dovrebbe immediatamente apparire evidente, della differenza enorme fra governare un comune e governare una nazione (sic).
Non faccio neppure riferimento al fatto che, utilizzata tre volte in Israele, l’elezione popolare diretta del Primo ministro è stata poi abbandonata. Mi limito, invece, a analizzare il disegno di legge Renzi et al. nelle sue carenze e nelle sue implicazioni. Della carenza più flagrante i proponenti sono consapevoli e lo dichiarano.
Nel disegno di legge dedicato all’elezione del capo dell’esecutivo manca qualsiasi indicazione concernente, non dirò la legge elettorale (meno che mai l’improponibile semi-incostituzionale Italicum), ma il meccanismo con il quale quel capo sarà eletto. Peraltro, se all’origine stanno le modalità con le quali vengono eletti i sindaci dei comuni al di sopra dei 15 mila abitanti, quella legge la conosciamo: vince al primo turno il candidato/a che ottiene il 50 per cento più uno dei voti espressi altrimenti passano al ballottaggio le due candidature più votate. Importante è ricordare che i vincenti hanno diritto al 60 per cento dei seggi nel consiglio comunale. Si pone qui il problema dell’attribuzione di questo premio di maggioranza in una situazione di Parlamento bicamerale.
Dal testo del disegno di legge sembra potersi dedurre che l’elezione del Presidente del Consiglio, pur contestuale a quella delle Camere, sarà separata, immagino su una scheda apposita sulla quale con ogni probabilità dovranno apparire i simboli dei partiti che lo sostengono.
L’eletto/a nominerà i ministri e avrà il potere di revocarli. Potrà essere sfiduciato dalle Camere. In caso di «dimissioni, morte o impedimento permanente», il Presidente della Repubblica «scioglie le Camere».
In maniera data sostanzialmente per scontata (as a matter of fact direbbero gli anglosassoni), vengono colpiti i due più importanti poteri costituzionali del Presidente della Repubblica italiana: la nomina del Presidente del Consiglio e, su proposta di questo, dei ministri (art. 92) e lo scioglimento (oppure no) del Parlamento (art. 88). Nelle circostanze sopra elencate sarà obbligo costituzionale del Presidente sciogliere il parlamento. Perderà qualsiasi discrezionalità e qualsiasi ruolo configurabile nell’ambito dei “freni e contrappesi” di cui una democrazia liberal-costituzionale ha assoluta necessità e sui quali poggiano la sua democraticità e la sua flessibilità.
Due critiche
In attesa di conoscere i cruciali meccanismi con il quale il capo del governo sarà eletto/a, due rilievi fortemente critici sono già formulabili. Il primo attiene alla rigidità del modello previsto contro la flessibilità delle forme di governo parlamentare che consente loro di affrontare situazioni politicamente, socialmente, economicamente emergenziali.
Il secondo è che il modello non garantisce affatto né decisionalità né governabilità, entrambe, affermerebbe il grande politologo Giovanni Sartori, derivanti più dalle qualità del personale politico che da scelte e strumenti istituzionali, ma soprattutto comporta il rischio dello stallo, dell’immobilismo.
Per evitare lo scioglimento automatico, Presidente del Consiglio, parlamentari e partiti cercheranno regolarmente il minimo comun denominatore o il “nessun” comune denominatore, preferendo l’indecisione allo scioglimento. Dominus, però, sarà sempre il Presidente del Consiglio che avrà la possibilità di scegliere il momento migliore per lui e per il suo partito nel quale (ri)chiamare alle urne l’elettorato.
Concludendo, nei termini nei quali è descritta nel ddl Renzi et al. l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri implica tre conseguenze a mio parere molto negative. Primo, sterilizza il Presidente della Repubblica strappandogli qualsiasi possibilità di essere e agire come “freno e contrappeso” al Presidente del Consiglio. Secondo, esalta in misura non valutabile il Presidente del Consiglio e il suo potere sulla sua stessa maggioranza e sul Parlamento. Terzo, irrigidisce la forma di governo in maniera esagerata e probabilmente controproducente.
Rigidità e manipolazione vanno di pari passo e non comporterebbero in nessun modo un miglior funzionamento del sistema politico e della democrazia. Se la bozza Casellati si muove secondo le direttive renziane parte molto male.
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