La riforma costituzionale Meloni si limita a costituzionalizzare una consuetudine seguita da tempo: diventa presidente del Consiglio il leader del partito che ha avuto più voti. Tale costituzionalizzazione, tuttavia, è accompagnata da meccanismi che hanno profili di illegittimità costituzionale (come il premio di maggioranza) o che consentono ribaltoni anche di maggioranza con facilità
Dal 1983 a oggi tutti i governi hanno promosso una riforma della Costituzione: alcuni aspiravano a cambiare intere parti della Carta fondamentale, altri solo singole disposizioni. Alcuni di questi tentativi hanno avuto successo, come ad esempio, quello del 1999 che ha cambiato il sistema di governo delle regioni, introducendo la possibilità per i cittadini di eleggere direttamente il presidente e di disporre lo scioglimento del Consiglio regionale in caso di sua sfiducia o dimissioni (è la regola del simul stabunt simul cadent).
A ispirare questa riforma erano state le nuove leggi elettorali per i sindaci dei comuni con più di 20mila abitanti, che prevedono un simile meccanismo con l’aggiunta di un premio di maggioranza.
Entrambe le riforme furono volute dai partiti di centro sinistra quale risposta alle perdurante ingovernabilità a livello locale che aveva comportato una vera paralisi gestionale con presidenti e sindaci sostituiti ogni anno.
Costituzionalizzare la realtà
La ratio di entrambe le riforme è la medesima: dinanzi ad assemblee rappresentative a elevato tasso di litigiosità che impediscono di compiere scelte decisive per lo sviluppo dei territori, occorre individuare un chiaro responsabile della politica locale, consentirgli di avere i numeri per attuare le sue decisioni, e permettere agli elettori di sanzionarlo alle successive elezioni se ha sbagliato o di premiarlo con la conferma se ha lavorato bene.
Il disegno di legge costituzionale approvato dal Consiglio dei ministri su proposta della presidente Meloni e della ministra Elisabetta Casellati ha la medesima ratio e costituzionalizza una consuetudine trentennale.
È dal 1994 che l’elettore è invitato a scegliere de facto il presidente del Consiglio che viene proposto come leader della coalizione politica: tale consuetudine è stata condivisa diverse forze politiche che nei simboli elettorali hanno indicato il nome del leader seguito dalla parola “presidente”.
Il problema, dunque, non è tanto in questa costituzionalizzazione di qualcosa che è già nella realtà, ma è nella previsione di meccanismi ulteriori che contraddicono tale principio o, all’opposto, lo esasperano.
Si pensi, in primo luogo, al premio di maggioranza del 55 per cento che il testo costituzionale riconosce alla coalizione che avuto anche solo un voto in più rispetto alle altre. Per intenderci: se si scontrano quattro liste e una ottiene il 25 per cento, un’altra il 24,9, la terza il 24,8 e l’ultima il 24,75, alla prima sarà assegnato il 55 per cento dei seggi sebbene i 2/3 degli elettori le abbia votato contro. Questo dato, oltre a porre una questione di equità, è stato già giudicato incostituzionale dalla Corte costituzionale.
In secondo luogo, il testo approvato, correggendo quello condiviso dai leader politici di maggioranza qualche giorno prima, prevede che, in corso di legislatura, si possa sfiduciare il presidente eletto senza che ciò comporti alcuno scioglimento automatico delle camere.
Secondo quanto previsto, in caso di cessazione del presidente eletto, il capo dello stato può affidare l’incarico a «un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al presidente eletto, per attuare le dichiarazioni relative all'indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il governo del presidente eletto ha ottenuto la fiducia».
Solo qualora anche quest’ultimo cessi dall’incarico, le camere sono sciolte. Tale formula non tiene conto della realtà: a differenza di quanto avviene in Canada o Gran Bretagna, quando il presidente del Consiglio rende le dichiarazioni alle camere per ottenere la fiducia, non deposita disegni di legge o una specifica e puntuale agenda di governo, ma si limita a tratteggiare in modo vago e generico le priorità della sua azione politica che, chiaramente, potranno cambiare nel corso della legislatura per motivi imprevedibili (si pensi al Covid).
La conseguenza pratica è che nessuno ha il potere di verificare se effettivamente il sostituto del presidente “eletto” rispetta questa regola o se la aggira. Inoltre non c’è alcun vincolo di mantenere la stessa maggioranza politica: la norma, dunque, per come scritta, è un incentivo ai ribaltoni, all’opposto di quanto si vorrebbe.
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