- Greta Thunberg, Giorgia Meloni, Elly Schlein. Tre donne, politicamente non omogenee, occupano oggi l’immaginario collettivo italico e non solo.
- Cosa le accomuna? Lo smarcamento dalla narrazione dell’inevitabilità oggettiva del mood del mondo. Un mondo che mentre ha prodotto importanti acquisizioni sui diritti e sulle consapevolezze del funzionamento psichico, al contempo ha prodotto un clima disumano.
- Tutte e tre si smarcano dal mood dominante, ma per andare in direzioni opposte. Meloni per costruire contenitori più rassicuranti. Schlein e Thunberg per concedere maggiore spazio all’esplorazione dell’individuo.
Greta Thunberg, Giorgia Meloni, Elly Schlein. Tre donne, politicamente non omogenee, occupano oggi l’immaginario collettivo italico e non solo. Fatto inusuale per l’Italia.
Cosa le accomuna? Lo smarcamento dalla narrazione dell’inevitabilità oggettiva del mood del mondo. Un mondo che mentre ha prodotto importanti acquisizioni sui diritti e sulle consapevolezze del funzionamento psichico, al contempo (la storia è sempre un intreccio ambivalente) ha prodotto un clima disumano (iperveloce, acorporeo, iperprestativo, bulimico di beni e opportunità) che ha dominato nel trentennio turbocapitalistico 1989-2019 succeduto al crollo del muro di Berlino, lasciando intorno a sé una massa impressionante di nuovi vulnerabili (soprattutto nel ceto medio) depressi, disperati, invisibili e oggi arrabbiati, di cui ho parlato in queste pagine.
La torre di Babele
Ciò che viene abitualmente chiamato nello slang corrente pensiero unico è questa narrazione proposta come un “Dio lo vuole!”. Non c’è possibilità di smarcarsi. Forse non tutti ricordano che nella Bibbia la Torre di Babele era basata su un linguaggio unico, una sorta di grande slang mondiale confusivo, un mormorio di fondo che ipercontrollava i devianti vale a dire chi non collaborava alla costruzione di un monumento che sarebbe dovuto arrivare fino in cielo, sfidando Dio, per tutelarsi dal rischio di un nuovo Diluvio universale. Non siamo molto distanti. L’illusione dell’immortalità non è per niente svanita, anche se per pudore non viene nominata.
Il mood dominante si aggrega intorno ad alcune dimensioni chiave (infinito, scritto, immateriale, teorico, globale – nel senso di delocalizzato – veloce, individuale) che possono venire progressivamente delegate a delle macchine, seducendo tutti con la potenza degli algoritmi (ChatGpt in primis), senza considerare che la complessità dell’essere umano è infinitamente maggiore di tutti i sistemi intelligenti che la nostra mente può progettare e che se un medico può essere aiutato da un programma che collega tutte le possibili malattie correlate a un sintomo e tutti i farmaci scoperti nel mondo per curare una patologia, avrà sempre molta più capacità l’essere umano di soppesare le variabili in gioco nel caso particolare. Lo specifico umano non è destinato a sparire, ma a ricollocarsi: dal tenere in mente una grande quantità di informazioni al governo di banche dati che detengono enormi quantità di informazioni.
Eppure le dimensioni che il pensiero unico considera antiche, arretrate, destinate alla desuetudine (circoscritto, orale, corporeo, pratico, locale, lento, comunitario) sono quelle che caratterizzano più specificamente l’essere umano e la sua complessità e non possono essere in alcun modo sostituite da una macchina.
Le questioni cruciali della vita come la fiducia, le relazioni dotate di senso o l’apprendimento profondo, esigono tempo (lentezza), sguardo occhi negli occhi (presenza del corpo), comunicazione orale: in sostanza un mix sfaccettato di aspetti anche emozionali, perché complesso e sfaccettato è l’essere umano.
Non solo, la nostra vita si svolge in micro-contesti, vale a dire nel locale (anche nelle città viviamo rioni, caseggiati, quartieri). Certo, è forte la retorica delle città, trasudanti opportunità, ma anche stress, relazioni anonime, aria irrespirabile, aspetti che nelle vituperate aree interne diventano zero code, parcheggi agevoli, chiamarsi per nome, ambiente salubre. A chi indica le megalopoli come nostro futuro ineludibile e auspicabile, vale la pena di chiedere quale attrattività può avere la vita nella metropoli che va costituendosi in Cina aggregando un sistema di città da 128 milioni di abitanti (pari a Italia e Francia messe insieme) con genitori che alle due del mattino vanno a tenere il posto ai figli in treni iperveloci su cui ogni giorno devono fare tre-quattro ore di viaggio per raggiungere il posto di lavoro e altrettante per tornare alla sera.
C’è chi dice “ma anche no”
Questo clima, mostrato e dimostrato come “oggettivo” dai dati (i “trend”) esibiti, ha generato paura, diffidenza, risentimento, ma anche bisogno di differenziazione: “ma anche no” è una locuzione che si è diffusa poco dopo lo scandalo della Lehman Brothers, prima grande incrinatura della corsa turbocapitalistica.
È un complesso coacervo di reazioni a cui corrisponde un complesso coacervo di risposte diverse di natura politica che, diversamente dal passato, hanno avuto modo di diffondersi rapidamente attraverso la forza impressionante acquisita dal web soprattutto tramite il passaggio dal pc (dove siamo dei cercatori) allo smartphone (dove siamo dei fruitori):
- Complottismo: «Questo clima non umano è frutto di una trama ordita intenzionalmente da qualche forza occulta; dobbiamo smascherarlo», oscillando tra buone intuizioni, scie chimiche e alieni.
- Populismo (tendenzialmente collocabile a sinistra): «Ci avete oppresso. Reagiremo con la lotta infischiandocene di tutte le liturgie costituzionali. Siamo contro i poteri forti. Vogliamo più diritti e più salario». Per avere tutto ciò l’ideologia populista non ritiene di dover rinunciare a niente di quello che già c’è e di ciò che promette questo mondo iperveloce. Gli Indignados e i vari occupy si ribellano finalmente, ma sembrano avere dentro la stessa disperazione narcisista del ‘77 bolognese. Infatti Podemos, Cinque stelle e La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon hanno un atteggiamento ambiguo rispetto al fiume di immigrati stranieri in arrivo nel Mediterraneo.
- Sovranismo, suprematismo e altre derive di destra: «Questo clima è frutto di lassismo morale, di confini non saldamente presidiati (con disegni di sostituzioni etniche guidati da Soros e papa Francesco), di sinistre nei governi e della Ue che hanno abdicato al ruolo guida dell’occidente e dei bianchi». Lo slogan torna a essere “Dio, patria e famiglia”. Viene proposto il ritorno a versioni arcaiche delle religioni cristiane (cattolica, protestante, ortodossa). Non servono altri diritti, ma regole da far rispettare veramente. Va notato che quest’area è tutt’altro che una riedizione delle antiche giaculatorie valoriali: fornisce a tanta gente disorientata e impaurita una spiegazione causale dove tutto torna e un orientamento comportamentale per mantenersi al riparo dai rischi, oltre a utilizzare in modo molto accorto le nuove tecnologie per diffondere questo messaggio.
Non c’è un confine netto fra questi tre registri che infatti hanno da sempre mostrato esondazioni reciproche fino a raggiungere la perfetta ambiguità nel governo bifronte gialloverde che, non badando a spese, ha dato la stura alle bulimie populiste (reddito di cittadinanza) e sovraniste (blocco delle navi, detassazione dei redditi alti), con la benedizione dei due ideologhi di Donald Trump e Vladimir Putin (il suprematista bianco Steve Bannon e il filosofo di estrema destra Aleksandr Dugin). Una cosa è certa: la reazione al mood oppressivo dominante ha un segno politico equivoco; la sinistra storica non c’è (è un driver di quel mood) e il populismo s’intreccia spesso con partiti e battaglie di destra: Casaleggio senior amava dire che il conflitto non è fra destra e sinistra, ma tra «sopra e sotto».
Greta Thunberg
Le tre donne giocano un ruolo di non poco conto in questa scena. Vediamole una per una.
Greta Thunberg (20 anni) si smarca dal pensiero dominante con una modalità che dribbla complottismo, populismo e sovranismo.
Certo, i giovani di Fridays for Future hanno una presenza intermittente e un’organizzazione lasca, Thunberg come immagine simbolica è portata in giro come un’icona e forse in parte strumentalizzata da chi sostiene finanziariamente quel progetto, ma nessuno avanza dubbi sulla sua integrità come persona che ha dato voce a un’istanza, rivolta all’establishment, di cambiamento ampio, radicale, non ideologico e realistico.
Provo a tradurre questa istanza in un discorso diretto: «Sono io l’artefice del mio destino: anche se mi proponi un progresso ineludibile veloce, tecnologico e globale voglio decidere io che cos’è giusto per me». «Siamo uomini o ballerini?» cantavano già 15 anni fa i Killers: «Siamo persone che esercitano la libertà o ci muoviamo eseguendo copioni?»
«Perché voi boomer ci chiedete di essere così prestativi se non sapete dove andare? Con tutte le vostre illusioni di controllare e guidare il mondo verso magnifiche sorti e progressive, avete accatastato intorno a noi milioni di morti, arsenali bellici che ci possono far saltare per aria centinaia di volte, una catastrofe ecologica a cui non sembrate accennare di voler porre rimedio. Noi post-millennial voliamo bassi. Non aspiriamo a palingenesi politiche come voi sessant’anni fa. Vorremmo innanzitutto continuare a vivere. Stiamo su cose circoscritte come ad esempio diminuire l’inquinamento, non fare guerre, mangiare cibi che non facciano male. Più che dei pianificatori siamo dei surfisti, schizzati come palline da biliardo da un punto all’altro di questo grande circo bulimico che avete costruito voi; ma non lo facciamo per calcolo cinico o disincanto. Semplicemente per realismo».
I giovani under 30 sono una risorsa perché sono cresciuti in un mondo più precario con meno attese verso sé stessi e verso il contesto e hanno uno sguardo più attrezzato di noi adulti per comprendere e gestire la velocità a cui stiamo andando; uno sguardo disincantato, ma tenace e concreto che ci può aiutare.
Non vanno blanditi, ma ascoltati e ingaggiati come collaboratori alla pari. Agli adulti spetta di custodire la memoria, non come una teca da contemplare, ma come capacità di collegare gli eventi e cercare di dare loro, progressivamente e mai definitivamente, un senso. La memoria è come il bagnasciuga, continuamente trasformato dal mare. Questa è la competenza che gli adulti devono portare in dote all’interno di un confronto maturo che non insegue solo clic e sondaggi.
Thunberg fa richieste forti, ma circoscritte. Non chiede tutto. Accetta una vita “risparmiosa”, ma vuole discutere delle priorità.
Giorgia Meloni
Anche Giorgia Meloni (46 anni) non chiede tutto. È una donna del popolo. Ha frequentato un istituto professionale. Ha timbrato cartellini al lavoro. Si è fatta largo in un’area politica machista. Ha iniziato giovanissima a impegnarsi politicamente e a 31 anni è stata la più giovane ministra della storia repubblicana.
Non ammicca come Matteo Salvini, non afferma per poi smentire come il pirotecnico Silvio Berlusconi. Nessuno dei due l’aveva sentita arrivare. Propone innanzitutto la sua coerenza come persona, della serie «sono quello che sembro, credo in quello che affermo e faccio quello che dico».
È questo aspetto che le ha consentito l’impressionante crescita elettorale, senza gli abnormi investimenti sui social dei vari Casaleggio, Salvini e Matteo Renzi: «Prendiamoci le nostre responsabilità, stiamo dentro a dei binari. Se sapremo farlo riusciremo ad andare avanti». In sostanza, se rispetti le regole sarai premiato, altrimenti te la sei voluta.
Per la destra porre dei limiti non è un problema e in questo modo offre contenimento alle tantissime persone impaurite, ma al contempo apre nodi rilevanti a chi vuole essere artefice del proprio destino e difendere/ampliare la sfera dei diritti. Le iniziative più recenti del suo governo sembrano accanirsi proprio sulla sfera più intima della libertà personale (fecondazione eterologa, reato di tortura ecc.).
Elly Schlein
Elly Schlein (38 anni) anche se non ha frequentato la ribalta della scena nazionale, ha ricoperto cariche importanti fin da giovane: a 29 anni europarlamentare, a 35 vicepresidente della regione Emilia-Romagna.
Nessuno l’ha sentita arrivare, perché nessuno nell’establishment si è accorto che il centro non c’è più. Il centro è affollatissimo di politici, giornalisti ed esperti, ma si va spopolando di elettori, quelli che votavano il vecchio centro sinistra e il vecchio centro destra, con reti e posizioni lavorative stabili e orizzonti sostanzialmente comuni. Molti partiti si affannano per collocarvisi, ma gli elettori splittano verso scelte estreme (Meloni e Schlein). Perché? Cos’è successo?
«Vivere costa fatica» cantava Claudio Lolli e il mood iperperformante è veloce e usurante. Se per di più chi sta ai piani alti, magari anche a sinistra, ti sollecita ad adeguarti al pensiero unico, dà per scontato che i legami sociali dotati di senso si riproducano automaticamente e la democrazia si riduca alla ripetibilità delle elezioni e all’esistenza di una pluralità dei partiti (mentre la democrazia è una mentalità da alimentare con la formazione e un intenso traffico sociale), non ti avvicina mai per ascoltare le tue difficoltà e costruire insieme tentativi di risposta, è abbastanza naturale che tu smetta di andare a votare o ti rivolga alle posizioni politicamente estreme. Il calcolo del consenso sulla base del tornaconto stretto sembra avere il fiato corto: se la gente è spaventata, stanca, disperata e depressa non sceglie sulla base dell’utile particolare.
Se lo sguardo di Greta Thunberg è globale sul mondo e sul rapporto con gli adulti, quello che veicola Schlein è uno sguardo sulla costruzione dell’identità in relazione alla centrifuga in cui siamo inseriti. Si smarca dai codici in voga chiedendo riconoscimento pieno per diritti a lungo negletti, emblema di una società non sadica.
La fluidità sessuale viene esaltata o respinta senza una discussione profonda sulle sue ragioni. Non è solo un “mi va di fare così”. È un fenomeno sociale. C’è comunque un tentativo di smarcarsi da un codice che vuole confinare la gente alla passività: «Dove posso farti capire che non posso reggere questo ritmo? Mi riparo in un ambito dove tu non puoi entrare: il mio corpo, le mie preferenze sessuali come ultimo rifugio della libertà».
Anche la settimana lavorativa di quattro giorni e il salario minimo possono essere visti come tentativi di smarcamento: dal curriculum perfetto, dalla carriera come inevitabile, dal lavoro a testa bassa per conquistare una posizione. Il posto fisso non è una fissa. Nell’epoca turbocapitalistica la tecnologia era diventata un mito, perché in crescita esponenziale. Per i post millennial la tecnologia è l’ambiente. Un dato di fatto. Non è un mito. Non è una minaccia. Non seduce. Si usa. Punto.
Gli under 30 sono nati in un ambiente tecnologico, precario e migrante. Per loro il mondo è piccolo, si spostano facilmente come un fatto naturale: negli ultimi otto anni quasi 500.000 giovani italiani tra i 18 e i 29 anni hanno spostato la residenza all’estero (fonte: Rapporto Migrantes)
È come se l’occidente stesse portando a compimento una sorta di big bang, di esplosione atomica dove i singoli si sono individualizzati, esplorando, differenziandosi dalle comunità, spesso invadenti, da cui provenivano. Sembra sia in atto a livello collettivo un movimento di ritorno con nuove consapevolezze, con l’idea di costruire nuove ricomposizioni parziali alla luce dell’esperienza liberante avvenuta.
Il punto centrale è visualizzare questo viaggio verso l’individuazione di sé, visto spesso in modo semplificato come individualismo. Un viaggio che apre quello sconfinato territorio che si chiama interiorità. È lo sguardo interiore che cambia il modo di stare al mondo e, di conseguenza, il mondo.
Il ‘900 ha sviluppato entrambe le tendenze: progresso in tecnologie, benessere, riconoscimento di diritti e crescita nella conoscenza di noi stessi. Da un lato assemblee, movimenti, collettività che rivendicano una maggiore giustizia rispetto a un passato gestito da pochi possessori di diritti.
Dall’altro lo sviluppo di un’interiorità che non si può disgiungere dallo sviluppo dell’individualità, al riparo da comunità (familiari, sociali e organizzative, inclusi partiti politici, associazioni e chiese) tendenzialmente invasive. Dunque il richiamo alla comunità è ambiguo se vuole negare questa seconda polarità che è preziosa quanto la prima.
Connettere e rassicurare
Si pone però il problema della costruzione di una scommessa collettiva.
Siamo anche corpi. Abbiamo bisogno della vicinanza dell’altro per costruire fiducia. E serve tempo perché possano sedimentarsi confidenza e fiducia. Forse servono contenitori meno connotati, più laschi, come le Sardine o Fridays for future: deboli sul piano organizzativo, ma molto efficaci nell’immaginario collettivo.
La fiducia si può riorganizzare in forme nuove, tutte da inventare, non necessariamente appiccicose e invadenti come quelle delle comunità che conosciamo. Nuove comunità vanno costruendosi, più provvisorie e più intermittenti, ma non meno significative in termini di profondità. La ricomposizione è più a carico dell’individuo: e questa non è una competenza alla portata di tutti.
Perciò bisogna immaginare modalità differenziate di allestire e accompagnare questa ricomposizione, che comprendano anche incontri collettivi, simboli e richiami a elementi fondativi per rassicurare chi fatica a orientarsi e a prendere contatto col proprio smarrimento, altrimenti prevarranno forme di ricomposizione autoritaria.
Il confine della nuova politica democratica è ascoltare, apprendere e accogliere questi nuovi movimenti che sono innanzitutto movimenti interiori, itinerari di singoli in cerca di nuove ricomposizioni. Se si pensa di riportarli nelle organizzazioni note non torneranno e saranno altre forme di ricomposizione autoritarie che prenderanno il sopravvento.
Se invece ci si pone il compito di accompagnare questa evoluzione con discrezione, senza predefinire i punti di caduta, si può favorire la crescita di nuove forme organizzative, aiutando chi non riesce a sostare in una zona troppo indefinita, a venire accolto in forme organizzative rassicuranti, benché parziali e provvisorie.
La costruzione dal basso di una massa critica di politiche locali connesse mi sembra la strada maestra. Servono organizzazioni (non necessariamente partitiche) che svolgano questo compito. La stessa forma partito per sopravvivere deve diventare più porosa nei suoi confini e collegarsi a organizzazioni maggiormente in grado di entrare in contatto con ciò che si muove nella società, collegandolo in modo flessibile.
Ovviamente, se inforchiamo per vedere questa scena le lenti della vecchia modalità organizzativa, le nuove forme non possono che apparire deboli, ma è noto che nelle intemperie sociali è più forte chi sa adattarsi agli eventi inventando nuove modalità di navigazione e incuneandosi negli spiragli, non chi resiste esibendo numeri e muscoli.
Ricostruire una speranza collettiva
Dirsi tutto ciò significa fare un lutto sulla vecchia organizzazione partitica. Non si tratta di abbandonarla al proprio destino, ma di reinventarla con uno stile di prossimità alle persone e di cura delle relazioni che è sì oneroso, ma è molto più efficace e dignitoso che bypassare de facto la forma partito attuale con tweet e talk show.
Fare un lutto è accettare un limite. Non è un’operazione semplice per una sinistra che non si è mai smarcata dal desiderio bulimico sotteso a un tempo che propone un aumento inarrestabile di diritti e opportunità senza prefigurarne i limiti. Limiti che riguardano lo sviluppo che travolge l’ambiente, i diritti dell’altro che limitano i miei, la nostra vita che è fatta di 24 ore e non può cogliere tutte le opportunità che ci girano intorno.
Questo è il nodo di Elly Schlein, che è anche il nodo del Pd e della sinistra nel tempo presente: ce la farà a tematizzare il limite?
Parlare di destra e sinistra
Le tre donne sono accomunate dall’immagine di persone coerenti e coraggiose che muovono movimenti identificatori appassionati e non meramente utilitaristici. L’essere donne produce nell’inconscio collettivo un collegamento alla generatività e a soluzioni dei problemi che non passano dalla violenza. Non è poco mentre infuria una guerra non molto distante.
Tutte e tre si smarcano dal mood dominante, ma per andare in direzioni opposte. Meloni per costruire contenitori più rassicuranti. Schlein e Thunberg per concedere maggiore spazio all’esplorazione dell’individuo: «Devo restituire alla comunità perché ho ricevuto, ma decido io che cosa e come restituire».
Si apre a questo proposito un’annosa questione: la destra sottostima le potenzialità dei cittadini, essendo guidata da un’antropologia pessimista sulla gente comune, ma al contempo contiene (troppo) le paure diffuse; la sinistra sovrastima le potenzialità dei cittadini, essendo guidata da un’antropologia (spesso) illuminista che scambia i progressi di pochi come acquisiti dalla maggioranza e finisce per contenere troppo poco le paure diffuse: se pensiamo un mondo a misura degli esseri più evoluti, i molti che non ce la fanno finiscono per sentirsi non riconosciuti, dunque esclusi e risentiti.
L’esito è che di solito nei momenti di transizione e scompaginamento emotivo avanzano le destre. Elly Schlein può prendere spunto da Greta Thunberg per evitare questo finale.
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