- I vincitori del 25 settembre avevano dichiarato la riscossa della politica, ad opera di una coalizione eletta dai cittadini.
- Invece al primo giro i raggruppamenti si sono perduti. Meloni ha eletto Ignazio La Russa al Senato grazie al trasformismo, al voto sottobanco degli ascari dell’opposizione, come era il Msi con la Dc.
- Ha vinto, ma ha sacrificato la sua maggioranza all’esigenza di dimostrare chi comanda: lei.
In una plumbea giornata autunnale, così lontana da tutte le altre prime sedute delle nuove camere avvenute sotto un sole primaverile o estivo, il nuovo parlamento ha vissuto un’inaugurazione senza festa, più da fine legislatura che da inizio.
In un clima di trappole, sospetti, manovre incrociate, serpenti sotto le foglie, rapporti politici e personali già logori, sotto il livello della sopportazione reciproca, una sensazione di aria irrespirabile, di asfissia. Il primo colpo d’occhio, dopo una votazione annunciata come una svolta storica, un cambiamento epocale, offriva piuttosto il ritorno in campo di antichi guerrieri e baroni un po’ invecchiati e già stanchi. Pronti a consumare vecchie vendette e a incrociare inimicizie di nuovo conio.
Al primo giro nell’aula del Senato formato ridotto si è spezzata la maggioranza, con Forza Italia sull’Aventino, e si sono suicidate le opposizioni, già mascherate dietro la scheda bianca, in assenza di bandiere: in un gruppo parlamentare senza Luigi Zanda o Roberta Pinotti, per citare due nomi prestigiosi che non si sono ricandidati, il Pd non ha più neppure questo.
Franchi tiratori e amici nascosti
Un saggio come Paolo Cirino Pomicino – che ne sa – ha sempre diviso i parlamentari che nel segreto dell’urna votano in dissenso dal gruppo in due categorie: i franchi tiratori, che votano contro il candidato ufficiale in dissenso dal partito, e gli amici nascosti, che dovrebbero essere sul fronte opposto e invece arrivano in soccorso.
Spesso, nella storia repubblicana, a questa categoria appartenevano i parlamentari del Movimento sociale di Giorgio Almirante, impresentabili in pubblico ma ben considerati in segreto. Così fu nel 1971, quando il democristiano Giovanni Leone fu eletto presidente della Repubblica al ventitreesimo scrutinio con i voti determinanti del Msi.
Così ieri, per uno scherzo della storia, gli ascari dell’opposizione che hanno votato per La Russa hanno eletto un ex missino alla seconda carica dello stato, come facevano gli eredi del fascismo all’epoca, sottobanco, vergognandosene. Mentre lui, l’Eletto, ha incassato i voti degli avversari senza troppo imbarazzo. Anzi, li aveva cercati da giorni, tra i partiti di opposizione, e li ha in pubblico ringraziati.
Alla prima prova da leader, Giorgia Meloni incassa il risultato. Porta uno storico notabile di via della Scrofa al seggio più alto del Senato, a un solo gradino in gerarchia di distanza dal Quirinale, umilia Forza Italia, ridicolizza il partito ronzullizzato, da Licia Ronzulli che guida da leader ombra Silvio Berlusconi. Ma lo fa a prezzo di sacrificare la presunta unità della coalizione che ha vinto le elezioni all’esigenza di dimostrare chi comanda nella compagnia: lei.
Pezzi di ricambio
Se per farlo ha prima stabilito un accordo con uno o più esponenti dell’opposizione, dovremmo cambiarle il nome in Giulia, perché sarebbe stata una mossa degna del “divo” Andreotti che aveva sempre una o più maggioranze di riserva. Ma questo è impossibile da dimostrare e bisogna allora fermarsi all’evidenza e non al retropalco.
Sul palco si è visto che se FdI non avesse avuto in tasca voti di soccorso non avrebbe messo a repentaglio il nome di La Russa, avrebbe votato al primo scrutinio scheda bianca, poiché i senatori di Forza Italia non stavano partecipando allo scrutinio. Evidentemente c’era la sicurezza dei pezzi di ricambio. E così il partito che ha vinto le le elezioni all’insegna della coerenza dimostrata nell’ultima legislatura avvia la nuova, la XIX, all’insegna del solito trasformismo che capovolge i voti dichiarati nel loro opposto, come nelle streghe di Macbeth: bello è il brutto, brutto è il bello.
Nel primo giorno di scuola neppure si fa finta che non sia così. Arrivano a frotte i nuovi eletti che sono anche i vecchi: Antonio Guidi, che fu ministro della Famiglia nel governo Berlusconi del 1994, dopo una vita nella Cgil, rieletto con Fratelli d’Italia, Marcello Pera, Giulio Tremonti e naturalmente Silvio Berlusconi. Che per un paio d’ore è stato il protagonista assoluto. Colui che levava a Giorgia il titolo di padrona d’Italia, con i suoi appunti scritti a mano sulla lista dei ministri di Forza Italia dove in quasi tutte le caselle spunta “Ronzulli”, con il vaffa a favore di telecamere all’indirizzo del senatore La Russa che stava per diventare il numero due di Mattarella. E alla fine è stato umiliato e offeso, con uno di quei colpi a sorpresa di cui era maestro: è come se Giorgia Meloni avesse tardivamente vendicato Gianfranco Fini, politicamente ucciso nel 2010 dagli ex di Antonio Di Pietro passati con Berlusconi.
Per Ignazio presidente si sono materializzati gli Scilpoti e i Razzi delle opposizioni e lo hanno messo nel sacco. Povero Silvio, per sfogarsi si agitava sfogliando tutto quello che poteva, anche le pagine gialle, forse, mentre il neo presidente provava a darsi un tono da uomo di stato.
Ritorno al 1994
Un revival del 1994 finito male. Con gli stessi protagonisti di dieci, venti, venticinque anni fa. Tutti curvi su sé stessi, già privi di spinta propulsiva. Dieci anni di rottamazioni e rivoluzioni grilline e casaleggiane hanno prodotto il ritorno del centrodestra di venti anni fa e la persistenza del solito centrosinistra, che in parlamento è forza di inerzia e non di opposizione.
Sarebbe oggi il giorno dell’analisi della prematura liquefazione del centrodestra e della prima sconfitta di Meloni a opera del nuovo Ghino di Tacco Silvio Berlusconi, se il fuoco amico del centrodestra non avesse coinciso con il primo suicidio collettivo in aula delle opposizioni.
Il cumulo di veleni incrociati e di rivendicazioni, simili alla giornata dei 101 che eliminò nel 2013 dalla corsa del Quirinale Romano Prodi, ripropone in forma minore e avvilente un grande classico del centrosinistra, la caccia al colpevole. Sul piano della tattica parlamentare non una grandissima idea per i partiti dell’opposizione votare scheda bianca esponendosi a qualsiasi scorribanda.
Oggi si riunisce di nuovo la Camera e la previsione è che sarà eletto il leghista Lorenzo Fontana, l’uomo delle messe tridentine all’alba, un controriformista per definizione. E altre convulsioni di Forza Italia, finita nel mirino della candidata premier. Il centrodestra che ha trionfato unito nei collegi del Rosatellum andrà al Quirinale separato alle consultazioni. Il primo passo della nuova legislatura indica un cammino accidentato.
Doveva essere il parlamento della riscossa della politica, dopo dieci anni di marasma, di governi tecnici, di maggioranze inverosimili, gialloverdi o giallorosse, di uno-vale-uno. Finalmente una coalizione eletta dai cittadini, hanno ripetuto per settimane sull’affollato carro dei vincitori. E invece alla prima seduta la coalizione di centrodestra si è perduta e il sistema politico si è subito avvitato nei «bizantinismi e tatticismi in cui si rotolano esponenti politici, partiti e frazioni di partiti che appartengono alla categoria del politicismo, mostrando un aspetto di decadenza del sistema e dei suoi gruppi dirigenti. Quando tutto si riduce alla alchimia delle formule, alla manovra attorno alle combinazioni, alla lotta per un potere in gran parte corroso, paralizzato o male utilizzato, siamo ad un passo dal cretinismo parlamentare e a due passi dalla crisi delle istituzioni».
Sono parole scritte da Bettino Craxi in un editoriale sull’Avanti intitolato Ottava legislatura, era il 29 settembre 1979, nei mesi iniziali di undici legislature fa. Ieri la figlia Stefania, senatrice di Forza Italia, sembrava stupefatta da quanto accaduto, dopo essere rimasta disciplinatamente fuori dalla votazione come tutti i suoi colleghi di partito.
Il passo verso la crisi istituzionale è stato superato da tempo, c Perfino il nome di Ignazio La Russa presidente del Senato.
È toccato a una anziana signora tenere su il profilo morale del parlamento. La presidente Liliana Segre sembrava fragile ma era fortissima, inflessibile, quando ha ricordato la bambina che era, cacciata dai banchi di scuola in un altro mese di ottobre, ed era il 1938. In quell’ottobre che portava alla tragedia, mentre quello del 2022 non anticipa nessuna marcia, semmai due passi verso il delirio.
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