«La prima volta che ho acceso il computer per fare lezioni ai miei studenti mi chiedevo: ma nei confronti degli altri colleghi malati come me di Covid è giusto lavorare? Poi ho pensato alle mie undici classi, i miei centoventi alunni dell’istituto Telese, soprattutto quelli del secondo anno. Sapevo che erano legati a me, non volevo che si sentissero abbandonati. Ho acceso. Un portatile e una pennetta per la rete internet. Non sono molto digitale, ma sono partito. Dopo la Pasqua ho preso coraggio. Con la tecnica santa pazienza, prova, errore, riprova».

Il prof Ambrogio Iacono per la famiglia è Gino – «mio padre mi ha messo il nome del nonno, ma ha chiarito che mai mi avrebbe chiamato Ambrogio, in paese i nomi si storpiano in soprannomi e nonno era 'Mbrusié» –, insegna da precario «scienze integrate» all’alberghiero, cioè chimica, fisica e biologia. Il primo concorso l’ha vinto nel 2000. Classe ‘70, vive a Quarto, città metropolitana di Napoli, abita con la moglie, la suocera e il figlio Francesco, 11 anni. Ma è nato a Foria, nell’isola di Ischia, e resta un’ischitano nostalgico, racconta della festa di Santa Maria, quando tutti dormivano nei boschi intorno al borgo per essere presenti alla funzione la mattina.

Oggi sul presto prenderà la sua chevrolet rossa e andrà a Salerno a sostenere la prova del concorso straordinario per i docenti precari, classe A041. Il navigatore prevede un’ora e tre minuti, al netto del traffico. Deve entrare in classe alle 13 e 30, sarà in auto, con la radio accesa, quando il presidente del consiglio Giuseppe Conte annuncerà alla camera il prossimo Dpcm e le prossime chisure.

La sospensione del concorso, le cui prove in teoria si svolgeranno fino al 16 novembre, non è al momento all’ordine del giorno. Lo è quella degli spostamenti fra le regioni da cui vengono molti dei colleghi candidati. Con lui ci sarà chi arrivano dalla Puglia, dal Molise. Il cavaliere del lavoro Ambrogio Iacono, come tutti i 64mila precari che partecipano al concorso, in queste ore studia e lavora. E aspetta di sapere. Gino è stato decorato dal presidente della Repubblica lo scorso 22 ottobre.

A lezione dall’ospedale

Questa storia inizia il 5 marzo scorso. «Ho vinto il primo concorso nel 2000. Ma poi a lungo non ho insegnato. Non sapevo che dopo aver vinto dovevo fare domanda di insegnamento, mi aspettavo che qualcuno mi chiamasse e mi dicesse dove dovevo prendere servizio. Ho fatto il concorso del 2013, quello annullato. Dal 2017 insegno ‘da fisso’, nel 2018 ho vinto il concorso ordinario. Adesso insegno al Petronio con incarico fino al 28 novembre. Aspetto la nomina dalla Gps (Graduatorie provinciali e di istituto per le supplenze, che all’inizio dell’anno in alcuni posti sono impazzite e hanno mandato insegnanti nelle scuolle sbagliate, ndr). Ma devo rifare il concorso perché altrimenti torno indietro nella graduatoria. Sono preoccupato, spero che le commissioni si rendano conto che insegnare in piena pandemia ti costringe a studiare meno».

«Il 5 marzo mi sono ammalato. Il medico non ha detto “Coronavirus” ma avevo la febbre alta, non sentivo i sapori e gli odori, era chiaro cos’avevo. Le scuole erano chiuse, ero andato a Ischia per sbrigare delle faccende. E allora mi sono dovuto isolare là. Il 28 marzo torno a Napoli dalla mia famiglia. Ero più che sicuro di essere guarito. Poi torno a Ischia, ma mi prendono dei forti dolori al petto».

Gino è uno sportivo, fa anche l’allenatore di basket, fisicamente è in forma. Si rimette in isolamento. Il 7 aprile ha una crisi respiratoria e finisce in ospedale. La Tac dice polmonite interstiziale, ma i polmoni sono già quasi puliti. Inizia la terapia di antimalarico, antibiotico e eparina. Ma peggiora di nuovo. «Mi manca l’aria. Una nuova Tac dice che c’è stato un infarto polmonare. Ancora adesso un mio polmone non è del tutto pulito, sono ancora in terapia».

I figli degli altri

Intanto anche a casa sua le cose precipitano. «A Napoli avevo infettato mia moglie e mia suocera. Mio figlio no, e deve starsene per venti giorni in camera da solo». Il papà, in ospedale, non può stargli vicino. Gino non lo dice, ma in quel suo click del computer, dopo la Pasqua, c’è anche la disperazione di non poter sostenere Francesco, che passa le giornate depresso e con la Playstation. Accade a volte agli insegnanti, si devono occupare innanzitutto dei figli degli altri.

«Era la fine del primo trimestre, la scuola ci faceva perdere tempo con le pagelle, io pensavo a quelli dell’ultimo anno. Quando ho iniziato la didattica a distanza davo solo compiti e li controllavo. Poi finalmente è arrivata la piattaforma. La prima lezione è stata l’11 aprile, era un sabato alla mezza. Credevo che sarebbero stati in pochi e invece erano anche più della mia classe. All’inizio erano emozionati, curiosi, mi chiedevano come stavo, guardavano l’ospedale da dentro lo schermo».

«Poi abbiamo cominciato a lavorare davvero. A volte c’era collegato anche il professore del laboratorio. Abbiamo stravolto il programma, abbiamo incentrato lo studio sui batteri e sui virus, sulle risposte immunitarie. La genetica è un cruciverba. Li interessava tantissimo. A volte a lezione c’erano anche altri ragazzi, di altre classi. Siamo andati avanti fino al 6 giugno, cosa che in altri anni era impensabile, dal 25 maggio molti smettono persino di frequentare, a Ischia è già estate».

«Dopo il Covid abbiamo fatto il corpo umano. Nelle ultime ore abbiamo parlato della sessualità, della riproduzione, ho chiamato uno psicologo a parlare. È l’età in cui i ragazzi impazziscono, alle lezioni erano interessatissimi», dice. «Anche perché a me sembra che questi ragazzini con il cellulare sempre in mano alla fine siano meno maturi di prima. Per loro è un gioco, e così il loro periodo di gioco si allunga. E anche quello della dipendenza. Nei primi giorni ero solo in camera. Poi le lezioni le ascoltavano anche i miei compagni di malattia».

Gino ha un vocione e un forte accento foriano: «Una volta i dottori mi hanno sgridato, parlavo a voce troppo alta. “Lavori tu, ma fa lavorare anche noi”. A volte mentre facevo lezione gli infermieri mi facevano i prelievi, o mi mettevano la maschera dell’ossigeno. I ragazzi chiedevano, si informavano. E’ stata una maniera per fargli capire quanto poteva essere grave la malattia». «Poi è arrivata la pubblicità. Ha iniziato a parlare di me Napoli Today e NuvolaTv. Poi la tv nazionale. Al primo collegamento ho messo una condizione: che si collegasse anche mio figlio Francesco, che stava lontano dal suo papà. Volevo tirarlo fuori dalla sua stanza».

Cavaliere del lavoro

Gino torna a casa il 5 maggio, dopo due mesi di malattia. Le sue lezioni vanno avanti fino al 6 giugno. Del cavalierato ha saputo dai giornalisti. Perché il postino, sapendo della sua lunghissima malattia, non gli ha lasciato il telegramma nella posta.

E lì è rimasto per giorni, insieme alle reclame dei supermercati. Quando è andato a Roma alla cerimonia ha dovuto chiedere il nulla osta all’ospedale Cotugno che lo aveva curato e con il quale è ancora in cura, programma DH post covid, ogni 15 giorni prende un fluidificante. Al Quirinale, racconta, ha saltato il momento della foto. Perché anziché mettersi in posa si è girato verso Sergio Mattarella e lo ha pregato: «Presidente, non abbandoni le scuole».

Gino non è un sindacalista. «Io lunedì vado, devo andare, ma in questa situazione fare i concorsi è stridente con la realtà. A Salerno saremo 110 in quattro scuole. Molti colleghi non riusciranno a venire. Magari sono in quarantena, magari resteranno chiusi in una zona rossa. Non so se la ministra Azzolina se ne rende conto. E strano che il presidente della Campania De Luca abbia chiuso le scuole ma non abbia preteso di sospendere i concorsi. Spero che la commissione d’esame tenga conto di tutto questo. Siamo insegnanti, per venire a fare l’esame dobbiamo uscire dalla trincea, e poi ci dobbiamo tornare».

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